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Franco Causio allo J.C Doc Alcamo: "Juve ormai tra i primi club in Europa, rammarico Champions. Quella volta che per regalo l'Avvocato ci mandò in Brasile..."

Mercoledi 1 Giugno presso la sede del club Trapanese, il Barone Franco Causio ha presentato il suo libro: "“Vincere è l’unica cosa che conta”, un libro scritto con Italo Cucci edito da Sperling & Kupf
03.06.2016 10:58 di  Leonardo Labita  Twitter:    vedi letture
ESCLUSIVA TJ - Franco Causio allo J.C Doc Alcamo: "Juve ormai tra i primi club in Europa, rammarico Champions. Quella volta che per regalo l'Avvocato ci mandò in Brasile..."

“Lo chiamavano Barone, per quei suoi piedi vellutati, sempre un po’ incantanti, geometrici, essenziali, insomma da sangue blu”.

Se hai la fortuna di incontrare e parlare con Franco Causio, ti bastano pochi minuti per capire come mai il Barone nei suoi anni da giocatore sia riuscito a conquistare il cuore di personaggi come Bearzot, Boniperti, l’avvocato Agnelli e il presidente Pertini.

Se poi ti rimane ancora qualche minuto, ti può anche prendere la malinconia, perché comprendi che di uomini e giocatori così, purtroppo da parecchi anni si è ormai perso lo stampino.

Il Barone conquista tutti, in occasione della presentazione del suo libro “Vincere è l’unica cosa che conta” avvenuta lo scorso 1 Giugno, presso la sede di un gremito Juventus Club Alcamo (Tp) “Carlo Messina”.

La genuinità dei suoi racconti ti rapisce, i suoi occhi lucidi mentre ricorda di quando da ragazzino andava a lasciare le bombole del gas con l’ape di suo padre, ti emozionano.

Al tavolo dello Juventus Club DOC di Alcamo, giunto al suo undicesimo anno di attività, si potrebbe stare per ore a sentire aneddoti straordinari, come quello della primavera del ’83 quando mentre si allenava sul campo dell’Udinese, fu prelevato da una volante dei carabinieri che lo invitarono, dopo aver fatto la doccia, a seguirlo.

C’era una persona che voleva incontrarlo, era Sandro Pertini che, impegnato in visita ufficiale in terra friulana, aveva espressamente chiesto di incontrare una sola persona, quel Barone che lo aveva conquistato da quell’emozionante scopone sull’aereo presidenziale da freschi campioni del mondo.

 

“Vincere è l’unica cosa che conta”, un libro scritto con Italo Cucci edito da Sperling & Kupfer.

Ci racconta come nasce l’idea di scrivere questo libro?

Nasce quasi per caso, sono stato contatto dalla casa editrice, ed io ho subito pensato all’unica persona con la quale avrei desiderato condividere questo progetto, ovvero, Italo Cucci.

Devo dire che ho faticato un po’ per convincerlo, all’inizio lui era un po’ scettico.

Poi una volta convinto, ci è bastato chiuderci per tre quattro giorni in albergo, mi ha messo un registratore davanti e ho iniziato a raccontare…

 

C’è stato qualcosa in particolare che l’ha invogliata a mettere nero su bianco i suoi ricordi?

Devo dire che ho deciso di scriverlo con il desiderio di far capire ai ragazzi di oggi che, anche se hai delle qualità, se non riesci a esprimerle con il sacrificio, il lavoro e l’umiltà, si arriva a poco cosa.

Ritengo questi tre aspetti fondamentali, non solo nel calcio, ma in qualsiasi tipo di lavoro.

 

«L’inizio non fu dei più semplici, perché non credevano molto in me e, se sono rimasto alla Juventus, devo ringraziare Armando Picchi. Fu lui a farmi giocare dieci minuti contro il Milan cosi che, in base al regolamento, non potevo più essere ceduto. Il mio, insomma, è stato un successo fortemente cercato, voluto».

 Oggi secondo Lei, trovare nei giovani calciatori quelli consapevoli che il proprio successo debba essere cercato e voluto, è facile?

Io credo che ultimamente i settori giovanili siano stati abbandonati.

All’epoca mia le grandi squadre andavano a cercare i talenti del futuro nel serbatoio della serie B e della serie C.

Adesso è vero che ci dobbiamo adeguare ai tempi, ma io credo che le istituzioni dovrebbero fare qualcosa, mentre le società dovrebbero trovare i maestri adatti per le scuole calcio.

Ci vuole tanto tempo lo so, io ho lavorato quattro anni con Gianni Rivera che era il presidente del settore tecnico scolastico, abbiamo lavorato tanto ma ottenuto pochissimo.

Quando si presentavano qualche relazione/progetto agli organi competenti, ti accorgevi che i fogli riguardanti il settore giovanile, erano sempre quelli messi alla fine.

Per questo dico che dovrebbero pensarci in primis le grandi società.

Per fortuna alla Juventus anche in questo, sono avanti anni luce, basta vedere i tanti talenti sotto contratto e gli ambiziosi progetti che stanno portando avanti riguardanti il settore giovanile.

« Madre Juve ha sempre avuto e avrà sempre il Dna del successo.  Lì ti insegnano a vivere, a come comportarsi dentro, fuori dal campo.  Lo stile Juve non è la giacca, la cravatta o l’orologio sul polsino, ma il grande rispetto verso tutti e verso se stessi».

Considerando il momento attuale del nostro calcio, con i cinesi alla conquista di una povera Milano e una Roma ormai americana, secondo lei la continuità della famiglia Agnelli per il mondo Juve, rimarrà sempre un qualcosa capace di fare la differenza o potrebbe soffrire i possibili investimenti di nuovi capitali stranieri?

No, la Juve è gestita dalla finanziaria della famiglia Agnelli, che è una potenza.

Ormai è fra i primi club di Europa, ed io credo che anche quest’anno, potesse stare tranquillamente in Finale di Champions.

Sono convinto che i primi, non aver ancora digerito la partita di Monaco, siano i giocatori.

Sul 2-1 un giocatore dell’esperienza di Evra, quella palla la deve tirare in tribuna, come avrebbe fatto il mio amico Gaetano Scirea (applausi ndr) con Zoff dietro pronto a urlare “dai buttiamola via che ormai è finita”.

“Il 5 luglio affrontiamo gli oroverde con un atteggiamento più…italiano, perché il Bea si affida al vecchio contropiede ribadendo un concetto che a Casa Juve ho sentito mille volte: «Mi basta che si segni un gol in più di quelli che prendiamo». Come diceva la «Bibbia» Boniperti: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta», alla faccia di tutti i predicatori offensivisti, dei moralisti del «bisogna saper perdere» cantato anche a Sanremo, dei profeti del Bel Giuoco”

Nelle pagine del suo libro emerge la sua ammirazione nei confronti di Bearzot e Boniperti, un loro ricordo?

Boniperti assieme all’Avvocato sono stati quelli che mi hanno fatto crescere, fatto diventare qualcosa.

Da ragazzino, arrivando dal Meridione, non era per nulla facile vivere in una grande città come quella di Torino, in un contesto storico davvero difficile. (sono gli anni delle Brigate Rosse ndr.)

Boniperti pretendeva un comportamento rispettoso dentro e fuori dal campo.

Guai a mancare di rispetto all’arbitro, lui osservava e segnava tutto. In tal caso, alla fine del mese, ti trovavi 100 mila lire di multa sullo stipendio, perché come ci diceva “voi dovete pensare solo a giocare e vincere, per tutto il resto ci siamo noi, la società”.

Ricordo che quando veniva a trovarci il Martedì dopo la partita, lui prendeva spunto dalle polemiche che alcune testate giornalistiche portavano avanti, con il solo intento di destabilizzare il nostro ambiente.

Ebbene lui ci diceva sempre “Noi per fare star zitti tutti, perché questa è solo invidia, dobbiamo e possiamo fare solo una cosa: vincere. Se noi vinciamo e siamo sempre i primi in classifica, possono continuare a scrivere tutto quello che vogliono, rimaniamo i più forti”.

Bearzot lo conosco a 16 anni quando ero in prova al Torino e lui era il secondo di Rocco.

Dopo tanto tempo siamo diventati amici, nell’estate del ’81 quando mi mandarono via dalla Juve per andare a Udine, la prima telefonata fu la sua.

Mi disse “Tu gioca come sai, perché nei 22 il primo della lista sei tu. Sicuramente non partirai da titolare, ci sarà Bruno Conti, tu mi devi dare una grossa mano soprattutto fuori dal campo”.                                                                              Non potevo che rispondere “Enzo stai tranquillo, figurati, sono a tua disposizione”.

Anche lei era una “vittima” delle mattutine telefonate dell’avv. Agnelli?

Come no! Ore 6:30 del mattino, il centralinista di casa Agnelli che lo annunciava: “Buongiorno Barone, dormiva?  Ed io rispondevo: “Prima si…”. (ride ndr)

L’avvocato era un personaggio straordinario, riusciva a non metterti mai a disagio, era questa la sua forza.

Mi ricordo quando vincemmo il campionato nel 72-73 che ci disse “Bene adesso vi faccio un bel regalo, vi mando in Brasile”.

E in Brasile ci andammo davvero, ma a inaugurare uno dei più grandi stabilimenti FIAT del Brasile.

Poi però ci ha lasciato una settimana libera a Rio a giocare e divertirci con il Palmeras e il Flamengo.

Mi ricordo in un ritiro estivo, dopo un campionato nel quale arrivammo secondi, che alla sua domanda “Barone, lo scorso anno a che posto siamo arrivati?” nel rispondergli lui replicò “Ah, abbiamo buttato via un anno…”.

In pochi ricordano che se Del Piero è diventato la leggenda vivente della Juve, il merito è anche suo.

Facevo l’osservatore per la Juve.

Seguivamo Del Piero già da un po’.

Andai a vedere un Padova - Inter, Alessandro disputò una partita di sacrificio e qualità.

Mancavano pochi minuti alla fine della partita, ferma sullo 0-0.

Quando stavo per uscire, osservo la palla a metà campo, lui spalle alla porta si gira e con un sombrero lascia sul posto il suo difensore, esce il portiere e con un colpo sotto mette la palla in rete.

Pochi giorni dopo, quando Boniperti sapendo del forte interesse del Milan di Galliani e Braida mi chiese “Barone la responsabilità è la tua. Adesso mi devi dire sì o no ?”

Non avevo nessun dubbio, Del Piero era assolutamente da prendere.

 

L’ennesimo applauso accompagna una serata straordinaria, ci sono tanti libri da autografare, tante foto da fare e sorrisi da offrire, il tutto con un animo vellutato, sempre un po’ incantato, geometrico, essenziale, insomma da sangue blu.

 

 

twitter: @leolab81