Gli eroi in bianconero: Umberto CALIGARIS

Umberto Caligaris era nato e cresciuto a Casale Monferrato, proprio in un’epoca nella quale la squadra nerostellata ospitava nelle sue file giocatori di sicura classe e di grande temperamento; caratterizzò un lungo periodo della storia calcistica italiana ed espresse elementi di indubbio valore, molti nomi, fra cui spiccano quelli di Eraldo Monzeglio e di “Berto” Caligaris.
Il biondo, poderoso, atleta casalese si era segnalato sin dalle sue prime apparizioni nelle formazioni giovanili; entrava sul pallone con l’impeto delle valanghe che scendono a valle. Aggressivo ed istintivo, perfetto colpitore, tagliava l’aria a fette con le sue acrobatiche sforbiciate, di cui gli si assegna la paternità. Giocava con eccezionale grinta, senza smettere un attimo di incitare i compagni, secondo quel vigoroso temperamento di trascinatore di cui la natura lo aveva dotato. Portava i capelli biondi e lisci abbastanza lunghi tenendoli a posto con un candido fazzoletto: nelle mischie quella fascia bianca, che gli cingeva la testa, lo rendeva subito riconoscibile quando si scrollava con foga dai viluppi di uomini. Era un’autentica forza della natura, una massa di muscoli messi al servizio dì una tecnica squisita.
Nella stagione 1923/24 Caligaris, del quale i dirigenti juventini avevano già sentito parlare, comparve per la prima volta come avversario della Juventus e di quei due personaggi, Combi e Rosetta, di cui sarebbe poi divenuto inseparabile amico. Entrambe le partite di quel campionato si conclusero con il successo della Juventus sul Casale, con il punteggio di 3-2 e c’è da segnalare un curioso particolare: un goal realizzato da “Viri” Rosetta che in quella formazione (10 febbraio 1924, campo di corso Marsiglia) figurava come attaccante; con una finta diabolica, “Viri” riuscì a sbilanciare “Caliga” che gli si era fatto incontro come una furia ed a battere, con un abile tocco, il portiere casalese De Giovanni.
Per altre quattro stagioni Caligaris continuò ad essere il perno della difesa nerostellata, anche se in maglia azzurra, sino dal giugno 1925 a Valencia, il terzino casalese aveva felicemente completato il trio di difesa insieme a Combi ed a Rosetta.
Anche alle Olimpiadi di Amsterdam la coppia Rosetta-Caligaris, allineata davanti a Combi, si era confermata come la più forte del mondo. Alla Juventus convennero che sarebbe stato assolutamente necessario assicurarsi il fortissimo terzino del Casale, per cominciare dalla difesa, la costruzione di quella che sarebbe stata la squadra “mostre” degli anni Trenta.
Edoardo Agnelli e Giovanni Mazzonis non esitarono: alla Juventus le decisioni venivano prese senza tentennamenti e Caligaris fu convinto a trasferirsi a Torino; così “Caliga” diventò bianconero a tutti gli effetti, giocando 26 gare su 30 nel suo primo campionato. L’arrivo del casalese aveva conferito saldezza ed omogeneità al trio di estrema difesa, proprio perché le qualità di Rosetta integravano e completavano quelle di Caligaris. “Viri” e “Berto”: due prodotti tipici del calcio provinciale e pure tanto diversi, come temperamento, come carattere, come gioco. Rosetta è apparso di colpo come giocatore completo, affinò in seguito il suo gioco con l’esperienza, ma non ne mutò più la base. Elemento calcolatore, freddo, positivo il vercellese; entusiasta, tutto fuoco, irrompente, il casalese. Il primo studiava l’avversario, il secondo lo investiva.
Questo diverso comportamento in campo traduceva il diverso carattere dei due uomini: di poche parole, riflessivo, osservatore Rosetta, espansivo, tutta cordialità, esuberante Caligaris.
Caligaris, però, era forse più avanti nei tempi, perché sarebbe stato sicuramente un perfetto terzino sistemista. A quell’epoca non esisteva il centromediano arretrato, lo stopper, come si dice oggi, ed i terzini tenevano a zona la parte centrale del campo, scaglionati in profondità. “Berto” giocava terzino avanzato o di rottura, un compito a volte ingrato, di scarse soddisfazioni, che solo un generoso ed un altruista come lui poteva accettare.
“Caliga” esordì in nazionale a 21 anni, il 15 Gennaio 1922, al “Velodromo Sempione” di Milano, affrontando la temibilissima formazione dell’Austria. La squadra azzurra aveva uno schieramento un po’ avventuroso all’attacco, ma la difesa, con Caligaris in coppia con De Vecchi e la mediana imperniata sui tre assi del Genoa, Barbieri, Burlando e Leale, dava il massimo affidamento. Infatti, Caligaris giocò una buona partita, rimanendo nella famiglia azzurra per ben dodici anni, totalizzando la bellezza di 59 presenze e risultando, per molto tempo, il primatista delle presenze azzurre. Verso il termine della carriera, avrebbe sicuramente potuto indossare per la sessantesima volta la maglia della nazionale, ma Vittorio Pozzo, che pur lo aveva in particolare predilezione, non riuscì ad accontentarlo, affidandogli il simbolico ruolo di alfiere della squadra nazionale in occasione dei Campionato del Mondo del 1934.
Caligaris chiuse la sua carriera nella Juventus con la vittoriosa partita, in casa contro la Pro Vercelli: 3-0. Era il 26 maggio 1935. Dopo la lunga ed onoratissima carriera, “Berto” appese gli scarpini al classico chiodo e passò all’insegnamento, prestando servizio in diverse società, compresa, naturalmente, la Juventus. Mentre era a Brescia, fu colpito da una grave forma di setticemia, dalla quale riuscì a guarire, grazie alla sua fibra eccezionale ed a parecchie trasfusioni. Ma l’apparato cardiocircolatorio ne risentì sensibilmente ed i medici gli proibirono qualsiasi sforzo, consigliandogli anche di evitare emozioni.
Un giorno del 1940 lui ed i suoi vecchi compagni si ritrovarono per un allenamento in vista di un torneo fra vecchie glorie. C’erano Combi e Rosetta: si trattava di ricostruire il trio protagonista di tante battaglie internazionali e “Caliga” non volle mancare. Rosetta gli disse di rinunciare, perché non era il caso di sottoporsi a pericolosi sforzi, ma “Berto” non volle sentire ragioni. Ad un tratto, mentre rincorreva un pallone, Caligaris si sentì male e venne adagiato accanto al palo della porta.
I compagni lo sollevarono e lo trasportarono al vicino Ospedale Militare dove l’ufficiale medico di servizio, mentre si apprestava a praticargli una iniezione tonificatrice, dovette dolorosamente annunciare ai pochi presenti che nessuna cura avrebbe più giovato a quel generoso cuore, che aveva ormai cessato di pulsare.
Così Umberto Caligaris chiuse la sua non lunga, ma intensa giornata. E venne posto nella bara con la maglia della Juventus ed, accanto, quella della nazionale azzurra.
Visse al completo l’epopea del favoloso quinquennio anni trenta (lega infatti il suo nome agli scudetti 1931, 1932, 1933, 1934 e 1935) e senza mai realizzare un goal mandò in archivio un bottino di 197 presenze: 178 di campionato e 19 nell’ambito della Coppa dell’Europa Centrale.
Insieme al compagno di reparto Rosetta vinse cinque scudetti consecutivi e quando gli domandavano quale fosse il loro segreto, lui rispondeva sorridendo: «Semplice: mai distrarsi, non dare all'avversario nemmeno il tempo di tirare il fiato !!!»
«Caligaris rifiuta gli schemi», ha scritto Gianni Giacone, «non perché sia un anarchico, ma semplicemente perché non li concepisce: il calcio, per lui, è un gioco tanto entusiasmante quanto semplice, che si gioca con la palla. Chi ha la palla, alla lunga, vince. Compito fondamentale suo è di sradicare più palloni possibili dai piedi degli avversari. Insomma, lottare, correre e poi ancora lottare».
Così lo racconta Caminiti:
Combi; Rosetta, Caligaris; Barale, Varglien II, Bigatto; Munerati, Ferrero, Vojak, Testa, Cevenini III. È il campionato 1928/29 quello che avvicina la Juventus ai giorni della gloria. E “Berto” Caligaris arriva dalle campagne casalesi, figlio d’arte, visto che il padre era stato un grande giocatore di pallone elastico.
Ha esordito come portiere all’oratorio Sacro Cuore al Valentino, poi è stato spostato all’attacco ed in difesa. Prima di diplomarsi ragioniere, aveva fatto parecchie apparizioni in pista d’atletica, eccellendo nella corsa veloce e nel salto in alto. Nel Casale si dimostra subito terzino da combattimento. Il modulo tattico in voga era il metodo, senza marcature fisse, le partite erano spesso cruente con feriti e contusi gravi al suolo, i campi erano spesso affondanti e melmosi. “Berto” a tredici anni, appoggiato alla rete di recinzione, piccolo, col ciuffo sulla fronte e gli scuri cupi occhi, guardava questa squadra e sognava. Sognava quello che presto sarebbe stato realtà, di vivere di calcio, per il calcio. Perfino morire per il calcio.
Non si dà mai per vinto, dove c’è da conquistare il più difficile dei palloni c’è lui, il fazzoletto bianco sulla fronte. Rosetta arriva perfino ad arrabbiarsi, gli suggerisce i piazzamenti, ma invano. Il più spiazzato dei difensori è lui, ma riesce sempre ad arrivare sul pallone.
La corsa lo assorbe, il pallone lo seduce. È un grande lottatore appartenente all’epopea di uno sport che andrà a rappresentare presto tattica e strategia, ma nel Casale ed anche nella Juventus, Caligaris sarà Caligaris, terzino che irriderà ad Aitken che pretendeva giocasse anche senza palla, come Rosetta.
In Nazionale è uno dei più longevi, vi esordisce il 15 gennaio 1922, al velodromo Sempione di Milano (3-3 con l’Austria), con i Morando, De Vecchi, Barbieri, Burlando, Leale, Migliavacca, Cevenini III, Moscardini, Santamaria, Forlivesi, non c’è neanche uno juventino in questa formazione. Figura in azzurro anche la Valenzana, col portiere Morando.
L’11 febbraio 1934, al “Benito Mussolini” di Torino, Caligaris gioca per l’ultima volta (la 59esima) in azzurro. È il Campionato del Mondo organizzato in Italia, che vinceremo. Dopo il trionfo con la Cecoslovacchia a Roma, quello sbandieratore inebriato, in testa agli azzurri, è lui.
Vivere per il calcio, perfino morire di calcio. Alle 15:30 del 19 ottobre 1940, gioca una partita tra vecchie glorie, subito dopo una colossale mangiata. Scattando alla sua maniera, gli cede il cuore. Rosetta è il primo a soccorrerlo. Nella grande ombra nera, “Berto” già si rattrappisce sull’erba di piazza d’Armi, con la sua bella maglia bianconera intrisa di sudore».