Gli eroi in bianconero: Bruno NICOLÈ

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
24.02.2023 10:20 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Bruno NICOLÈ
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In una caldissima domenica di giugno del 1957, la Juventus gioca allo stadio Appiani di Padova contro la formazione di casa. L’undici bianconero naviga a centro classifica, non bastano la classe di Boniperti, di Hamrin e di Corradi, la grinta di Garzena e Nay, la dedizione di Colombo e Montico per dare slancio e sostanza al gioco. La partita con il Padova si annuncia difficile. Nelle file della Juventus c’è anche Stivanello, che nel Padova aveva appunto giocato la stagione precedente, il quale avverte il compagno Nay: «Stai attento al ragazzino che gioca centravanti. Ha appena sedici anni ma possiede le doti del campione: uno scatto pazzesco e un tiro che non perdona!».
Aveva esordito qualche mese prima in Serie A: «È un sabato particolare: il giorno precedente il Paròn Rocco mi ha convocato per la partita casalinga con l’Inter, la sera guardo il Festival di Sanremo, ma in modo distratto, penso a cosa potrebbe succedere l’indomani. L’allenatore vuole aumentare il mio bagaglio di esperienza, vuol farmi sentire da vicino l’aria dello spogliatoio della Prima Squadra. Penso... Il mattino seguente è il 10 Febbraio 1957, mi sveglio e mi reco all’Appiani, luogo della convocazione, per la squadra è una domenica come le altre: Messa al Santo, pranzo da Cavalca e poi rientro all’Appiani a piedi. Entriamo negli spogliatoi e alle spalle sento la sua voce inconfondibile: “Bruno, cambiati che giochi!” Mi giro come a dire “Parla con me, Mister?” e con la sua faccia disincantata e prima che possa proferire parola, aggiunge: “Se te lo dicevo ieri, non te dormivi tutta la notte, saresti uno straccio in campo, invece mi servi al massimo. Fa queo che te te senti de far”».
Il primo tempo finisce 0-0; ma all’inizio della ripresa il ragazzino, di nome Bruno Nicolè, riceve un preciso lancio di Rosa, lascia sul posto Nay, aggira Garzena e fulmina il portiere Romano con un tiro imprendibile. Sullo slancio del vantaggio conquistato il Padova raddoppia con Bonistalli, poi Colombo riduce le distanze e finisce 2-1. Nicolè è un costante pericolo, sarà il migliore in campo. In tribuna ci sono alcuni dirigenti juventini, Nicolè è sotto osservazione; ma più di ogni cosa vale il giudizio espresso da Boniperti che, essendo in campo, ha visto da vicino le prodezze del robusto campione di Padova.
Nel campionato 1957-58, la Juventus rimette in piedi lo squadrone in grado di puntare al titolo. In prima linea ci sono Boniperti, il gallese Charles e l’argentino Omar Sivori; all’ala sinistra è confermato Stivanello, manca un uomo per fare una linea di attacco senza rivali: Bruno Nicolè. È abituato a giocare di punta, ma nelle prime tre giornate di quel campionato viene mandato in campo con la maglia numero otto. Boniperti, per lui la cosa non è nuova, gioca con il numero sette. Dalla quarta domenica, incontro di Ferrara contro la Spal, Nicolè è schierato all’ala destra, con Boniperti interno, regista di lusso per una squadra di lusso e le cose funzionano a meraviglia.
Bruno, però, è costretto a cambiare totalmente il proprio gioco: a Padova era la punta di diamante dell’attacco biancoscudato, a Torino c’è Charles e, in aggiunta, c’è anche Sivori; gli altri organizzano il gioco per i due strepitosi uomini goal. Nicolè, per il momento, mantiene tutte le belle promesse. Non è il primo talento che arriva da Padova per vestire la maglia bianconera, ventisette anni prima era stato acquistato Nane Vecchina.
Nella prima stagione juventina, disputa ventuno partite, ma non riesce ad andare in goal neppure una volta, mostrando cose da autentico campione e azioni che solo gli assi del pallone riescono a realizzare, ma perdendosi, talvolta, in indefinibili incertezze; l’età del ragazzo impone una verifica delle sue doti e naturalmente Bruno è riconfermato.
Per dare impulso alla sua personalità ancora acerba, si decide di riportarlo nel suo ruolo naturale, quello di centravanti; gioca, infatti, una splendida partita nella terza di campionato, a Padova su quel terreno dell’Appiani, dove era cresciuto e maturato come calciatore di rango. La Juventus vince per 4-1 e Bruno riceve tanti consensi, anche se, ancora una volta, manca l’appuntamento con il goal. Il 12 ottobre 1958, contro il Napoli a Torino, riesce a battere Bugatti e a realizzare il suo primo goal con la maglia bianconera, poi Sivori siglerà il 2-0 per la Juventus. Niente goal a Roma (contro i giallorossi che vincono alla grande per 3-0), poi il ritorno al successo personale nel derby, che la Juventus si aggiudica con l’insolito punteggio di 4-3. Ancora un goal a Firenze (3-3) e un altro a San Siro contro l’Inter (vittoria per 3-1 dei bianconeri). Il giorno di maggior gloria è, però, quello in cui Nicolè firma tutte e tre le reti con le quali la Juventus supera la Triestina allo stadio di Valmaura l’11 gennaio 1959. Ma anche la doppietta contro la Lazio (battuta per 6-2) merita una buona dose di applausi. Una stagione, tutto sommato, davvero lusinghiera per il diciannovenne giocatore della Juventus: ventuno partite giocate, tredici reti realizzate.
Sostanzialmente positivo il rendimento del giocatore nella stagione 1959-60, conclusa con il secondo scudetto: trentuno partite disputate e undici goal segnati. La Juventus ha ripresentato una prima linea molto efficiente e spettacolare: Nicolè, Boniperti, Charles, Sivori e Stacchini. L’argentino, che aveva Bruno in gran simpatia, mette a segno la bellezza di ventisette reti, Charles ne segna ventitré, Stacchini otto. Quella è una grande Signora: tanto è vero che nel 1960-61 concede il bis dello scudetto e ripresenta un Nicolè sicuro e pimpante: ventinove gare giocate, tredici reti segnate. Nella stagione 1961-62 disputa ben ventisette partite e realizza ancora settantotto reti, ma il suo rendimento lascia più di una volta a desiderare. L’ultimo campionato juventino per il ragazzo di Padova è il 1962-63: solo dodici gare e un solo goal segnato; oramai la parabola ascendente si è bruscamente e inesorabilmente arrestata.
Bruno è stato un buon giocatore, ha anche avuto la soddisfazione di conquistare otto gettoni nella Nazionale, con la quale ha esordito a diciotto anni, nel novembre del 1958 al Parco dei Principi, in un’amichevole con la Francia finita 2-2, le due reti azzurre portano la firma della giovane punta juventina.
Ha vinto tre scudetti con la maglia bianconera, due successi in Coppa Italia: ma non è bastato a far brillare in modo indelebile la stella del ragazzino di Padova. Abbandonato il calcio, dopo aver militato in altre squadre, a soli ventisette anni, Bruno Nicolè, diventa insegnante di educazione fisica.

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Bruno Nicolè: uno dei casi più clamorosi del calcio bianconero e nazionale. Osannato e calpestato, idolatrato e vilipeso. Si può veramente dire che la sua carriera è stata un’altalena continua dagli altari alla polvere e viceversa. Una carriera lampo culminata nel ritiro dall’attività a soli ventisette anni. Oggi che Bruno Nicolè è un ex (ma fa un po’ ridere, però, questo termine che evoca tempie grigie, mezza età e via di seguito), che ha chiuso alle sue spalle la porta dorata del calcio, abbiamo voluto tentare un esame del suo caso, lo stesso, in fondo, di migliaia di giovani che ogni anno si affacciano a quella porta dorata e sognano la gloria sportiva.
Siamo andati a trovarlo nella sua casa dì Vicenza. Ha moglie, la graziosa signora Annamaria, e figlio, un pupetto bellissimo di quindici mesi, Fabio. È molto ingrassato, ha l’aria tranquilla, distesa, del borghese in vacanza. Nicolè, è la prima volta, credo, nella storia del calcio, che si parla di un ex di ventisette anni. Di un ex che conta, cioè. Che cos’è che l’ha indotta ad abbandonare l’attività così presto? «Il peso è stato sempre la mia croce. Ultimamente non ce la facevo più a tenermi sul peso giusto e quindi il mio rendimento non era normale. Ma questa è solo una delle ragioni, anche se piuttosto importante. In realtà avrei smesso già due anni prima, a venticinque anni cioè, quando mi trasferirono all’Alessandria. Non volevo giocare in Serie B; non che lo considerassi un disonore, ma non ho mai pensato di poter vivacchiare nel calcio. Forse perché sono partito molto forte non mi sono mai fatto eccessive illusioni. Cioè ho sempre saputo che dovevo considerare il calcio veramente un gioco e che presto o tardi sarebbe finito. La carriera di calciatore è un’incognita enorme, non ci si può fare un affidamento assoluto. Io giocavo, perché mi piaceva giocare ma non ne ho mai fatto una ragione di vita. Per questo ora non ho assolutamente rimpianti: è stato un periodo molto bello, potrei dire anche meraviglioso, ma è finito e ora ho altri traguardi. Oltretutto, nel mio caso, non so come avrei potuto continuare, con il gioco che si pratica adesso. Il calcio atletico presuppone doti di velocità, di ritmo e quindi di condizione atletica sempre perfetta che per me sarebbe stata troppo difficile non solo da trovare ma soprattutto da mantenere. Il mio fisico purtroppo è tutto particolare: il minimo incidente che mi costringeva a un giorno di riposo si trasformava in una vera e propria tragedia; perché stare fermo un giorno voleva dire aumentare due chili. Quindi mi ci voleva poi un superlavoro per ritornare in peso e, di conseguenza, non ero mai a posto. Per questo, due anni fa, ero già pronto per l’abbandono. Ho poi accettato il trasferimento all’Alessandria, perché dovevo ancora fare il servizio militare e altro è farlo nella compagnia atleti, piuttosto che al CAR comune, soprattutto con la famiglia già formata».
Che cosa prova un ragazzo che tra i sedici e i diciotto anni si trova a passare dalla Serie B alla squadra Campione e alla Nazionale? «Io credo di non essermi mai montato la testa (la signora Annamaria scuote la testa con aria dubbiosa: lei è di parere contrario); forse a un certo punto mi sono un poco rilassato, la conquista era stata fin troppo facile. Ma penso sia comprensibile: a quell’età non si può avere l’equilibrio psichico che dà la maturità. Devo dire anche, però, che questa celebrità improvvisa mi ha creato un mucchio di problemi e che tutto sommato sarebbe stato preferibile arrivare per gradi, senza sprazzi. Io, con tutti i miei alti e bassi, posso comunque dire di essere stato ancora fortunato. Forse proprio per lo spirito con il quale ho sempre preso tutta la faccenda ho potuto, a un certo punto, valutare il pro e il contro e prendere una decisione. Ci sono molti (la maggior parte, penso) che invece non si sanno vedere al di fuori del calcio e le assicuro che in questi casi è molto brutta la fine della carriera. L’inserimento nella vita delle persone, diciamo così, normali è difficilissimo e purtroppo non tutti pensano in tempo a quello che faranno quando non saranno più gli “idoletti” della domenica».
Quali pensa siano state le cause che le hanno fatto mancare il vertice stabile della carriera? «Non lo so, è difficile dirlo coni sicurezza. È azzardato anche dire che avevo in partenza le possibilità di diventare un grande del calcio. Può anche darsi che mi abbiano sopravvalutato, è un ambiente nel quale si perde facilmente il senso delle proporzioni e si riesce anche facilmente a farlo perdere. Un ragazzo fa presto a esaltarsi a sentirsi dire sempre che è bravissimo, può darsi che io abbia commesso degli errori di natura psicologica, come può darsi che le ragioni siano di carattere esclusivamente tecnico. Comunque, in quei tempi, si poteva pensare che avesse ragione chi mi esaltava; adesso, visto come sono andate le cose, si direbbe che abbia avuto torto».
Quando ha cambiato squadra non ha pensato che poteva essere per lei un’occasione per ricominciare tutto da capo? «Sì, in effetti, il primo anno, nel Mantova, sono andato piuttosto bene. Sono anche tornato in Nazionale quell’anno e credo di aver fatto un campionato positivo. Poi sono andato alla Roma e lì sono rimasto coinvolto nella situazione sballata in cui è venuta a trovarsi la società. Ricorderà la baraonda che c’era, le collette dei tifosi e altre cosette amene. Così il campionato è stato quel che è stato, alla fine hanno ceduto i pezzi più commerciabili e così io sono andato alla Sampdoria. Lì mi trovavo benissimo, ero partito proprio bene, il signor Bernardini era contento; poi una bella mattina, in novembre, vado in sede e leggo tra le comunicazioni affisse all’albo che sono trasferito all’Alessandria. Nessuno mi aveva parlato di trasferimenti, ero lontanissimo da un’idea del genere. Così è maturato il proposito di finirla con il calcio. Ho fatto subito i miei programmi: finire gli studi, prima di tutto. Ho sempre dovuto rimandarli; gli allenamenti, i ritiri non incoraggiano certo a studiare. Ora ho altre soddisfazioni, non economiche ma d’altro genere».
Che cosa consiglierebbe a un giovane che vedesse partire con le sue stesse possibilità, con le premesse che aveva lei dieci anni fa? «Quello che ho detto prima: non perdere mai il senso delle proporzioni e tener presente che nella vita ci sono altri valori. L’ambiente del calcio da un’educazione sbagliata, anzi è impostato in maniera sbagliata. Il giocatore è una macchina, fin che va è tutto bello, quando si guasta nessuno pensa a lui. Per questo bisogna partire con le idee chiare, prendere la professione seriamente sì, ma essere preparati anche al momento in cui finisce, un momento che può arrivare da un istante all’altro. Fin che sono in attività i giocatori sono coccolati, viziati, si sentono al centro dell’universo, trovano un mucchio di persone che risolvono i loro problemi. E quando si trovano a dover affrontare da soli nuove responsabilità non ce la fanno. È un mondo irreale che per un ragazzo può diventare molto pericoloso se non ha sufficiente forza di carattere. Quindi un consiglio che si può dare, prima di tutto, è di mettersi le spalle al sicuro con un titolo di studio, anche se costa sacrificio. Dopo è più facile sistemarsi e inserirsi in una nuova vita».
Se per magia ritornasse, in questo momento, ad avere sedici anni, al punto di partenza della sua carriera, quali sono le cose che rifarebbe e quali quelle che eviterebbe? «Non è possibile dirlo. L’esperienza la si fa al momento, sul posto e nelle precise circostanze. L’esperienza degli altri non serve a nessuno, e nemmeno la propria se si riferisce a fatti di dieci anni prima. Se io tornassi ad avere adesso sedici anni probabilmente rifarei tutto da capo, visto che ho sempre fatto tutto in buonissima fede e senza barare. È andata così, non posso dire altro. La mia esperienza di calciatore, semmai, se lui vorrà, la userò per insegnare a mio figlio, a lui solo».
Prende il braccio del piccolo Fabio, se lo guarda con un sorriso pieno d’amore paterno e di orgoglio paterno. «Le dico la verità, questo è il più bel traguardo che ho raggiunto, più bello ancora dei famosi due goal in Nazionale a Parigi».