Fabrizio Bocca: "Champions, ecco i segreti del mondo Juventus"

Attraverso Repubblica.it, il giornalista del quotidiano romano Fabrizio Bocca ha parlato della Champions League. Finale: "Potrebbe non esserci mai stata, davvero, una Juve così grande. Una squadra più forte e più grande in Italia, ancora forse sì, ma dovremmo andare a pescare nell’Olimpo del football italiano: il Grande Torino, il Milan di Sacchi, l’Inter di Herrera. Sarà che abbiamo sempre mitizzato gli anni '80, l’epoca d’oro del calcio moderno, i grandi campioni, l’Eldorado del pallone, l’Italia al centro del mondo. E la Juve dunque al centro del mondo. Ma sembrava impossibile andare oltre Trapattoni, Lippi, Zoff, Scirea e Platini. La Candida Rosa juventina. Impossibile riscrivere i nomi scolpiti nella pietra. Ma quella di oggi – la Juve di Cardiff - potrebbe farlo sul serio. E gettarsi alle spalle la maledizione delle sei finali perdute di Coppa Campioni/Champions League, quasi una condanna biblica. In più di un’occasione quest’anno i giornali sportivi hanno messo a confronto la Juve di Allegri che va da Buffon a Higuain a quella di Trapattoni che andava da Zoff a Bettega o da Platini a Paolo Rossi. Tuttosport ci ha provato ma alla fine i tifosi hanno preferito la Juve del 1985, quella che vinse la prima Coppa dei Campioni nella notte tragica dell’Heysel. Lo spagnolo e madridista AS, invece, nel costruire una Juve “all time” per avvicinarsi alla grande sfida di Cardiff, alla fine è riuscito a inserire soltanto Buffon al posto di Zoff, e con grande difficoltà immagino: Buffon, Gentile, Thuram, Scirea, Cabrini, Tardelli, Platini, Nedved, Zidane, Baggio, Del Piero. Formazione che pur nella sua assurda overdose di piedi magici - è una squadra che dal Real di oggi perderebbe di sicuro - e tenendo fuori addirittura Sivori e John Charles, solo per citarne un paio, ti fa comunque rendere conto di quale carico di talento abbia usufruito la Juve in oltre un secolo di storia. Il meglio del meglio del calcio italiano e internazionale. E del resto l’Avvocato collezionava grandi calciatori così come Balla, Matisse, Bacon e Picasso nelle sue case di Torino e New York. Scriveva negli anni 80 Gianni Brera su Repubblica - spaccando da fuoriclasse il fronte dei suoi lettori - tifosi, sollevandoli, sconvolgendoli e facendoli infuriare - che “uno scudetto vinto dalle altre è sempre uno scudetto perso dalla Juve”. Potremmo spostare perfettamente il postulato breriano di 30 anni e discuterne: lo trovereste sbagliato? No, non è sbagliato. Ma pensate se Brera lo scrivesse oggi su Facebook o su Twitter: cosa potrebbe accadere, cosa gli direbbero. Il mondo di oggi è spaccato in pro (Juve) e anti (Juve), e da lì non si scappa. E poi ancora, scriveva sempre Brera: “la Juventus è un fenomeno sociale”. Ma lo diceva dal punto di vista storico, argomentando la sua nobiltà di nascita – il Liceo Classico Massimo D’Azeglio, in un’epoca quella della fine 800, in cui l’analfabetismo era una piaga sociale terribile con punte anche del 70%-80% in certe zone d’Italia -, in contrapposizione al Torino, di “origine plebea”. Questione di classe dunque. E questo no, questo forse è cambiato molto. La Juve di oggi non ha niente di snob, nessuno si azzarderebbe mai a parlare di una superiorità nobiliare, o addirittura di classe. La Juventus oggi è un fenomeno sociale assai più di trent’anni fa, quando Brera, scriveva queste cose. Se è vero che il calcio è una trasposizione della religione o della politica e fa dunque riferimento comunque a una fede trascendente o laica che sia, la Juve è la religione più diffusa o il partito di maggioranza. E la partecipazione comunque è quella, mai distaccata, mai equilibrata, mai razionale, quasi sempre di pancia. Un tifo forte, potente in un panorama sempre più esasperato di partigianeria calcistica. Mai sentita pronunciare come in questi anni la parola “odio” nel calcio, imbarbarendo e avvelenando un po’ tutto. Credo ci si renda benissimo conto che così come milioni di supporter bianconeri tiferanno Juve, e molti altri - forse un po’ romantici, vecchiotti e sorpassati - la sosterranno “perché io tifo sempre le squadre italiane in Coppa”, ci saranno parecchi altri milioni che la guferanno e tiferanno Real Madrid. Così va oggi il mondo. E del resto state tranquilli che in Spagna avviene la stessa cosa, per cui dalla parte della Juve, ad esempio, ci saranno tutti i tifosi del Barcellona, antimadridisti avvelenati. Senza confini pure in questo. No so chi abbia contato i 250 milioni di tifosi bianconeri nel mondo, o i circa 14 che si attribuiscono alla Juve in Italia in maniera omogenea, da Torino a Reggio Calabria, con le radici in Piemonte e le fronde dappertutto, ma di questo stiamo parlando. Un mondo Juve. Una Juve molto italiana (proprietà, management, guida tecnica, blocco difensivo), però un fenomeno assolutamente senza frontiere, decisamente global. Come lo sono ormai il Real Madrid stesso suo avversario nella finale di Champions League, il Manchester United, il Barcellona e compagnia bella: un cerchio ristretto di grandi, ricchi e potenti “marchi” del pallone di cui ormai la Juve fa stabilmente parte. La finale di Cardiff però, per una volta, rovescia completamente il panorama: il Real con le sue 11 Coppe è il potere assoluto, costituito, la Juventus è l’alternativa, l’opposizione, addirittura il nuovo.
Nel ’98 nella stessa finale di Amsterdam (il famoso gol di Mijatovic) non andò bene, ora tenta di nuovo l’assalto al potere. La Juventus non è solo una squadra che vince tantissimo, è anche un movimento di pensiero, trasversale a tutte le classi sociali. L’iconografia dell’operaio Fiat con la bandiera rossa da una parte e quella della Juve dall’altra fa parte di un’altra epoca. Anzi non esiste proprio più, anche perché non esiste più la bandiera rossa. Oggi il tifoso Juve è un supporter moderno da tastiera, digitalizzato e parabolato, fa parte di quell’immensa rete di qualche decina di milioni di supporter social. L’ultima volta che la Juve ha vinto una Champions League (1996) non esistevano né Facebook né Twitter, né Google, né gli smartphone. Che invece oggi possono essere considerati il veicolo principale dello juventismo, il convogliatore della passione, il motore della competenza e del business che poi sono alla base del successo. La Juve è un prato verde dove si gioca e si vince, ma anche un immenso “cloud” bianconero. Quelli che vedono la Juve dal vivo, andando a tifarla allo Stadium - unico vero esempio in Italia di impianto modello Nba – fanno parte di un élite. Tutto sommato meno, molto meno dello 0,1% degli juventini tout court.
Tanto che si potrebbe pensare, per assurdo, che ormai il tifo allo stadio non sia più così indispensabile. Se non fosse che è proprio lì che la Juve di oggi ha messo le fondamenta del suo successo. In un calcio moderno che teorizza il superamento della barriera casa/fuori e l’abolizione del luogo comune del pubblico “12° uomo”, la Juventus dal 2011 ha messo i mattoni del suo ritorno tra i grandi proprio sfruttando il suo moderno castello medievale. La Juve contiana dei 102 punti in Serie A (2013-2014) vinse tutte le partite in casa. E soldi ovviamente. Oggi più di ieri. Oggi tutti i tifosi parlano con competenza di fatturato, quando fino a ieri interessava loro solo che un buon presidente dilapidasse il suo patrimonio dentro al proprio club e comprasse loro il miglior giocatore su piazza. Certo, quando è servito, i soldi della famiglia Agnelli sono arrivati, ma la Juve oggi vince anche perché fattura 350 milioni l’anno, e rischia di sfondare – per merito della Champions League - i 500 nel 2017, forse addirittura i 550. Nell’ultima stagione, quella del sesto scudetto, il valore azionario in Borsa è letteralmente esploso, triplicato in soli nove mesi: da 300 a 900 milioni. E’ probabile che se non ci fosse stato lo Stadium, il cui progetto risale agli anni 90 e il lavacro post calciopoli degli anni 2000, non saremmo arrivati a una Juve così forte, così organizzata, così ricca. Non ci sarebbe stata la lunga ricerca di una nuova dimensione, forse lo stesso Andrea Agnelli avrebbe preso altre strade, e magari Beppe Marotta non sarebbe mai arrivato e comprato a suon di centinaia di milioni Dybala e Higuain. Da Buffon a Higuain, da Barzagli a Dybala possiamo individuare, raccontare, esaltare tutti gli uomini che fanno la Juve, ma se c’è qualcosa che contraddistingue la Juve oggi è la sua capacità di andare oltre il singolo campione, il singolo allenatore. Da Conte ad Allegri non è cambiato molto anzi non è stato affatto un salto nel buio. Allegri è oggi tra i primi 5 allenatori del mondo ma sicuramente è stata anche la Juventus a farne un grande allenatore, a mettergli a disposizione una squadra che sfiora la perfezione. E questo vale anche per i giocatori che si sono avvicendati: da Pirlo a Dybala o da Tevez a Higuain, la Juve ha cambiato ripetutamente faccia per rimanere alla fine sempre con la sua, senza mai identificarsi totalmente con un giocatore solo. Fossero anche Del Piero o Buffon che pure hanno interpretato a fondo lo juventinismo del XXI secolo. Già sappiamo che la Juve di domani probabilmente sarà diversa da quella di oggi, proprio per rinnovarla continuamente, mantenerne massimo il livello, e tenerla sempre affamata, arrabbiata. Pur essendole passate per le mani Pogba prima e Dybala poi, in assoluto la Juve non ha affatto il mito del giocatore giovane e talentuoso, o almeno non è schiava di un prototipo unico, un eroe giovane e bello. L’ultima Juve è il rinnovarsi continuo di un “instant team” - esemplare la figura di Dani Alves, l’uomo delle 30 finali, di cui 27 trionfali - che possa andare a vincere velocemente. La Juve rastrella i talenti di Dybala, Rugani, Pjaca, Caldara, Kean, Betancur ma poi alla fine schiera per otto, nove undicesimi una squadra di espertissimi ultratrentenni (media 30,6 anni), con pochi selezionatissimi giovani per volta. Perché il giovane o è pronto (Pogba, Dybala), oppure deve aspettare, crescere in panchina o altrove. Proprio perché l’obiettivo non è vincere in futuro, ma vincere subito e il più possibile. Come dice la famosa frase di Boniperti: “Vincere non è importante è l’unica cosa che conta”. Frase ovviamente niente affatto condivisa dagli antijuventini che anzi la ritengono arrogante e antisportiva, ma che piace tanto negli Stati Uniti (o forse che viene addirittura dagli Usa, visto che il presidente la riprese da uno striscione esposto allo stadio) e spesso sulla bocca, ormai, delle grandi star americane: Pat Riley, Shaquille O’Neal, LeBron James. Sia un prototipo o meno, giovane o anziano non importa, il giocatore juventino è prima di tutto dunque un soldato fedele, forte, inquadrato, convinto della vittoria, determinato - quasi mai irregolare a meno che non sia Sivori - eccellente nel suo ruolo e dedito anima e corpo alla causa. Perché alla fine, a spiegare tutto, resta sempre quella frase passata alla storia di Beppe Furino, detto semplicemente Furia: “Alla Juve non basta la classe, ci vogliono palle d’acciaio”. Ecco, la Juve appunto".