Armando PICCHI (prima parte)

La storia di questo sfortunato allenatore, prematuramente scomparso.
16.07.2013 08:00 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Armando PICCHI (prima parte)
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Armando Picchi arrivò a Torino nell’estate del 1970; aveva trentacinque anni ed un patentino di allenatore di seconda categoria. Alla Juventus non era mai arrivato un allenatore così giovane, ma si respirava aria di grandi cambiamenti: il presidente Vittore Catella stava per passare la mano a Boniperti, con Italo Allodi fresco general manager. Il decennio si era aperto con due scudetti, ma per il resto aveva riservato risultati mediocri, impennata di Heriberto Herrera a parte, ed aveva anche portato la grande paura della retrocessione.

C’era voglia di rinascere e Picchi sembrava proprio l’uomo giusto per rinverdire i fasti passati. Diceva Boniperti: «È giovane, serio, preparato, soprattutto ha una rabbiosa voglia di sfondare».

Era arrivato in serie A, da giocatore, venticinquenne; Paolo Mazza lo aveva acquistato dal Livorno in serie C per lanciarlo in una sorprendente Spal, classificatasi al quinto posto. L’Inter lo aveva preso subito, lasciando alla Juventus il suo compagno di difesa, il più modesto Bozzao, ed erano stati sette anni indimenticabili: scudetti, coppe europee, coppe mondiali e, sulla soglia della trentina, anche la prima di dodici maglie azzurre.

Interprete per antonomasia, del ruolo di libero, ultimo baluardo davanti al portiere in mille battaglie seguite con il cuore in gola da milioni di spettatori; leader tattico ma, soprattutto, umano e morale della sua squadra, sindacalista coraggioso ed altruista, quando i calciatori non avevano alcun diritto. Armando Picchi era l’esempio, uno dei pochi nella storia del calcio, del campione che conosce e difende con coerenza i grandi valori che nutrono le società civili; il rispetto degli altri, il coraggio delle proprie scelte, lo spirito d’indipendenza, la serietà professionale, la solidarietà, l’amicizia, il senso profondo delle proprie radici.

Livornese purissimo, una famiglia di marinai, un nonno anarchico ed un nonno repubblicano costretto all’esilio, portò nella “Grande Inter” del “Mago” Helenio Herrera e di Moratti tutto lo spirito ribelle ed irriverente, ma anche combattivo ed indomabile, ereditato dalla sua terra e dalla sua famiglia.

La natura non era stata prodiga con lui, nel donargli talento da fuoriclasse. Tutto quel che nel calcio aveva raggiunto lo aveva realizzato pagando di persona, salendo gradino dopo gradino, con la volontà, la tenacia, il coraggio. Diventò il capitano della grande Inter, non perché giocasse meglio di Suarez, di Corso oppure di Mazzola, ma perché più d’ogni altro possedeva la capacità di lottare e di trascinare la squadra alla lotta. Perché, fra i sassi di Buenos Aires, nell’allucinante fragore del “Hampden Park”, nella bolgia di Liverpool oppure nella battaglia di Dortmund, mentre la squadra correva il rischio di disgregarsi, lui non si limitava a controllare il gioco ed a ribattere, ma urlava per incitare i compagni, li guidava con i gesti imperiosi delle braccia, inveiva contro chi mostrasse un attimo di disorientamento o di timore, comandava e si faceva ubbidire. In campo, il fascino della sua personalità soggiogava anche chi sapeva giocar meglio di lui.

Picchi non sapeva giocar di testa, eppure è stato fra i difensori più forti che abbia mai avuto il calcio mondiale. Si può discutere all’infinito sull’utilità tattica del libero nel calcio, ma è indiscutibile che in quel ruolo, che pretende intelligenza, intuito, furbizia, lucidità, lui sia stato uno dei migliori. Ha dato persino il suo nome alla formula: “il libero alla Picchi”.

Gli scontri con Herrera erano all’ordine del giorno: «Il “Mago” non lo avevo capito», confidò un giorno Picchi, «e non credevo di poterlo capire. Ero troppo diverso. diciamo troppo indisciplinato. Capii che dovevo cambiare e basta. Sono diventato un altro».

E molti, che non amavano Herrera, vedevano in lui il vero allenatore in campo, lo stratega di tante grandi vittorie. Lo chiamavano “Penna Bianca” e lui comandava davvero, capace in partita di prendere per la maglia un compagno e, mostrandogli la fascia di capitano, urlargli in faccia: «Cos’è questo? Uno straccio? Ed allora fa come ti dico! E dopo fa pure la spia al “Mago”!»

Quando gli dicevano che era stato fortunato a trovare un allenatore come Herrera, che lo aveva valorizzato, ribatteva pronto che la fortuna era stata di Helenio ad aver trovato un giocatore come lui, anzi «come tutti noi», amava precisare, in segno di solidarietà con i compagni, da vero capitano. E fu il primo a ribellarsi alla disciplina ferrea di Herrera quando, vinto tutto quel che c’era da vincere, i giocatori dell’Inter cominciarono ad avvertirne la pesantezza.

Una volta Herrera, nella sera d’una clamorosa vittoria in coppa, ma alla vigilia di un’importante partita di campionato, ordinò che si bevesse solo acqua minerale. Armando organizzò uno scherzo, per quei tempi clamoroso, facendogli trovare all’indomani, davanti alla porta, tante bottiglie vuote di champagne sturate durante la notte per festeggiare il successo. Dette a lungo la sensazione di non aver mai stimato Herrera o, comunque, di non essergli mai affezionato. Ma quando i pochi amici veri gli chiedevano quale fosse il tecnico migliore da lui incontrato, la risposta era: Helenio Herrera. Quando cominciò a far l’allenatore, si ispirò ai metodi dello stesso “Mago”.

Poi l’esilio in provincia a Varese, dopo l’ennesima polemica con il “Mago”. Dopo un’estate di studi a Coverciano, era diventato l’allenatore giocatore della squadra biancorossa, figura oramai in uso solo nel campionato inglese (quando lui era in campo, dalla panchina lo aiutava Sergio Brighenti). La partita dell’addio l’aveva giocata a Firenze. Era una domenica triste, piena di amara rassegnazione: lui, livornese, costretto ad assistere ed a fare la spalla al trionfo dei vecchi rivali fiorentini, neo campioni, mentre il suo Varese retrocedeva, per un punto, in serie B.

Il destino non fu mai tenero con lui. Un grave incidente, durante un incontro con la Nazionale, ne stroncò la carriera. Era il 6 aprile del 1968, a Sofia si giocava Bulgaria - Italia, era l’andata dei quarti di finale degli Europei. Al 24’ minuto del primo tempo, Picchi intervenne a chiudere una discesa del mediano Yakimov. Uno scontro terribile: lo portarono negli spogliatoi, lui chiese di rientrare e rientrò; si mise all’ala, sulla fascia. Rimase fermo, immobile come una statua, senza poter intervenire, forse senza capire nemmeno il perché. Era ritornato in campo con una commozione cerebrale e con l’osso pubico fratturato.