Gli eroi in bianconero: Helmut HALLER

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
21.07.2018 10:22 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Helmut HALLER
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Nato ad Augsburg, in Germania, nel 1939, dopo una lunga e onorata carriera nel Bologna, oramai grassottello e appagato, si trasferisce alla Juventus nel 1968, convinto di poter terminare la sua carriera in pace e tranquillità. A Torino, trova il Ginnasiarca Heriberto Herrera, che lo torchia come un’oliva e lo restituisce alla più invidiabile delle condizioni fisiche. Comincia, così, una nuova vita da attaccante di fascia al servizio di una squadra giovanissima che trascina, con la sua classe e l’innegabile mestiere, alla conquista di grandi successi; addirittura, ritorna in Nazionale per i Mondiali del Messico del 1970, dopo essere stato protagonista assoluto ai Mondiali inglesi del 1966, portando la Germania in finale.

Lo scudetto del 1971-72, conquistato senza Bettega, lo vede grande protagonista, offrendo scampoli di grande classe: suo il goal che, all’indomani del derby perso, sconfigge il Varese e rida speranza all’ambiente juventino. Sua, ancora, la rete che sblocca il risultato nel giorno più bello, quello che permette di festeggiare lo scudetto, contro il Vicenza.

Haller è un tipo strano, molto simpatico: al primo posto dei suoi pensieri c’è il divertimento, è sempre a caccia della buona cucina, del buon bere e della risata sopraffina. Quando decide di giocare, in campo vola, unendo la forza tedesca alla classe brasiliana, accarezzando il pallone con perfezione a ogni tocco, dribblando, concludendo a rete oppure fornendo l’assist vincente al compagno meglio piazzato. Vycpálek, spesso, chiude entrambi gli occhi sulla vita non propriamente da professionista del tedesco. Scappatelle che costringono i dirigenti bianconeri a prendere, nei suoi confronti, provvedimenti anche severi e che vengono anche duramente censurate dalla moglie, la terribile signora Waltraud dalla quale oggi vive separato, ma che lo gestiva come procuratrice. Cercava sempre di fare gli interessi del suo eterno ragazzo e, se qualche volta Helmut non riceveva giudizi lusinghieri dalla stampa, prendeva il telefono e, con un tono che non ammetteva repliche, caricava di insulti il giornalista che si era permesso di censurare il marito.

E una volta, una di queste fughe gli costa molto cara. Era stato il migliore in assoluto nella Juve-baby battuta 2-1 sul campo del Wolverhampton, il 22 marzo 1972; su rigore, aveva trasformato il punto della bandiera. Poiché la qualificazione era già stata compromessa con l’1-1 dell’andata, Vycpálek aveva tenuto a riposo alcuni titolari, pensando al derby in programma la domenica successiva, sfida importantissima per la corsa allo scudetto. Per non mandare allo sbaraglio giovani come Piloni, Longobucco, Viola, Novellini e Savoldi II, l’allenatore aveva chiesto a Helmut di sacrificarsi in questo impegno internazionale di metà settimana. Haller fu ligio al dovere, fornendo una grande prestazione e strappando applausi agli stessi fan dei “Wolves”. Ritenendo di esserselo meritato, dopo cena chiese di fare un salto fuori albergo; richiesta bocciata, sia dal tecnico sia dai dirigenti.

Con la complicità di italiani residenti in Inghilterra, Haller preparò la fuga di soppiatto; ma Vycpálek e il Direttore Generale Giuliano vigilavano e lo sorpresero al night, con una coppa di champagne in mano. Il tedesco fu messo fuori rosa. Boniperti spiegò: «Haller ha sbagliato e deve pagare; so i rischi che correremo nel derby, ma debbo dare un esempio ai giovani che sono su questo aereo».

Sarebbe entrato di diritto nel Gotha dei grandissimi, se solo si fosse concesso qualche sacrificio in più. Nel 1999 è stato eletto Centrocampista tedesco del secolo, a testimonianza della sua grande classe. Aveva una visione di gioco totale ed era portato a deliziare il pubblico con autentiche magie; ai compagni che gli chiedevano il pallone, Helmut Haller replicava: «Tu non chiama. Io vedo e ti dà».

Lascia nel 1973 dopo aver contribuito a due scudetti e aver totalizzato 170 presenze e trentadue reti.

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Haller era alla sua penultima stagione juventina, era grandissimo, ma non sempre. Faceva leva sulla straripante vitalità di Causio, per concedersi pause che spiegano la lunga carriera. Il suo astro aveva cominciato a brillare ai Mondiali cileni, nel 1962. In Coppa Uefa i bianconeri non fecero troppa strada, con il Wolverhampton caddero al ritorno in Inghilterra, dove Helmut fu al centro di un curioso episodio di vita notturna.

Quando all’ora della ritirata i bianconeri spensero le luci o si dedicarono alle letture, il fantasista tedesco uscì dalla stanza e se ne andò in giro, in compagnia di vecchi amici che aveva incontrato in Inghilterra. Cesto, placido come un monumento, volle dare un ultimo controllo ai suoi ragazzi. Appena vide il letto di Helmut vuoto, fu come scosso da un terremoto. Chiamò il dottor Giuliano. Pietro stava leggendo un libro giallo e fu sorpreso dall’irruzione inconsueta. Si vestì in fretta, si infilò con Cestmír in un taxi.

Dopo un quarto d’ora trovarono il night galeotto. Wolverhampton è una città piccola. Quando misero il naso dentro il locale, Vycpálek e Giuliano videro subito Haller. Era seduto con amici italiani, in mezzo ad una nuvola grigia di fumo e l’aroma inconfondibile del whisky. Helmut si accorse del tecnico e del dirigente, sorrise, non gli restava altro da fare, si alzò, salì sempre in silenzio sul taxi prenotato da Vycpálek e da Giuliano e rientrò con loro in albergo.

In Italia mi raccontò l’episodio, parlava e rideva era un picaro stravagante, con la risata a raffica sapeva farsi perdonare. La spiegazione di Helmut riportò il buon umore in Cestmír, il quale però propose il tedesco per una multa. Boniperti non si fece pregare due volte. Vincere e incassare erano, per lui, due hobby irrinunciabili.

Helmut era un tedesco fuori dagli schemi, aveva sempre voglia di parlare se la luna non gli andava di traverso, magari per ragioni banali ma, per lui, importantissime. Quando instaurava il black-out non c’era verso di cavargli una parola. Nei periodi di eclissi, lasciava che la bella moglie Waltraud rispondesse al telefono: «Helmut non parla!»

E riattaccava rumorosamente la cornetta, dopo aver salutato con tono molto scortese. Passavano ventiquattro ore e il sorriso tornava a splendere sul volto di tedesco nato ad Augsburg, città vicino a Monaco, ma che aveva le caratteristiche di un latino sfaccendato.