Gli eroi in bianconero: Didier DESCHAMPS

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
14.10.2020 10:27 di  Stefano Bedeschi   vedi letture

Deschamps, anni 25 – scrive Angelo Caroli su “La Stampa” del 7 maggio 1994 – è stato acquistato per una cifra appena inferiore ai 2 miliardi di lire (indennità di fine contratto). Riceverà poco meno di un miliardo a stagione, vincolo triennale. Il motore dell’Olympique e della Nazionale francese era accompagnato dal suo consulente, Werth.
Allegro e felice, Didier non si è lasciato intrappolare dai luoghi comuni e dalla retorica. Ha subito spiegato di essere «rimasto impressionato dall’accoglienza in perfetto francese. Anche Vialli mi ha dato il benvenuto nella mia lingua. Umberto Agnelli mi ha chiesto del Marsiglia, della Francia. Poi ci siamo appartati io, Bettega e Giraudo. Il fotografo del club mi ha ripreso con la maglia bianconera, quelle due stelle d’oro mi hanno fatto tremare. Mi sono sentito già uno della Juve. Vivo come in un sogno, l’anno scorso si parlò di me in bianconero, ma nessuno mi aveva contattato. Dico la verità, mi par di sognare».
Si mescolano passato e presente, freschi fotogrammi da dimenticare (i guai dell’Olympique, ndr) e progetti ambiziosi. Nella Juventus ha giocato Platini, francese come lui. Deschamps sorride prima di ammettere che «una volta entrato in collegamento con la Juventus, ho pensato al grande Michel. Vorrei riuscire anch’io a rendere il vostro campionato più bello. I nuovi dirigenti mi hanno spiegato che la Juventus s’è ringiovanita a ogni livello, che vuole tornare a vincere dopo otto anni di astinenza. E mi hanno detto: sei l’uomo giusto al posto giusto. Bettega mi ha visto giocare a Monaco. Evidentemente mi ha giudicato da Juve. Spero di accontentarli, dando loro ciò che si aspettano. Sono felice e, in questo tipo di felicità, i soldi non c’entrano».

Nato a Bayonne, il 15 ottobre 1968, cresce nel Nantes, dove gioca per cinque stagioni, prima di approdare una prima volta a Marsiglia, nel 1989. L’anno successivo veste la maglia blu del Bordeaux e poi altri tre stagioni nell’Olympique Marsiglia, dove vince lo scudetto, la Coppa dei Campioni e conquista il posto fisso nella Nazionale transalpina.
Arriva alla corte di Lippi, nell’estate del 1994 e subito subisce un infortunio gravissimo: parziale rottura del tendine di Achille. Didier si deve fare operare e la convalescenza è molto lunga, sei mesi.
Didier non è il tipo che si arrende facilmente: una volta guarito diventa subito indispensabile costituendo con Paulo Sousa, una coppia di centrocampo fortissima che porta la squadra bianconera a vincere scudetto e Coppa Italia e arrivare in finale di Coppa Uefa.
«Cosa ho trovato a Torino? Una grande società, una professionalità impeccabile da parte di tutti, dal magazziniere al massaggiatore, dai medici al presidente e tutti i dirigenti. Ci mettono nelle migliori condizioni per dare sempre il cento per cento. Sono arrivato a Torino che avevo vinto due campionati francese e una Coppa dei Campioni, ma la Juventus mi ha dato ancora di più».
Fortissimo nel pressing a tutto campo e nel contrasto, ha un senso della posizione che gli consente di integrarsi con qualsiasi compagno, senza la minima difficoltà. È uno di quei giocatori, magari poco appariscenti, che fanno sempre sentire il peso della loro grande generosità agonistica e uno spiccato senso tattico. Il numero di palloni che tocca e i chilometri che percorre sono incalcolabili.
L’unico difetto che gli si può appuntare è che segna raramente: infatti, nelle 178 partite disputate con la Juventus, realizza solamente 4 goal.
Diventa insostituibile anche nella Nazionale francese della quale è l’indiscusso capitano e con la quale vince il Mondiale casalingo del 1998 e gli Europei olandesi del 2000; con la maglia “bleu” totalizza 103 presenze e 4 goal.
Con la Juventus disputa altre quattro stagioni ad altissimo livello, vincendo tutto quello che si può desiderare: in totale il suo palmarès vede tre scudetti, una Coppa Italia, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea e due Supercoppe Italiane.
Nel 1998 entra, come altri suo compagni, in collisione con Marcello Lippi e il tecnico viareggino sarà costretto a dimettersi dall’incarico.
«Premetto che nessuno può essere soddisfatto per quello che è successo. Però è vero, sabato mattina ho litigato con Lippi, non per la decisione tecnica di tenermi fuori squadra, fatto che pure mi ha deluso e fatto arrabbiare ma che ho accettato, piuttosto perché avevo delle cose da dirgli e gliele ho dette. Mi dispiace che sia successo alla vigilia delle sue dimissioni. Per ora non lo chiamerò, ma in seguito accadrà. Questa vicenda non toglie nulla al nostro rapporto, del resto in questi cinque anni Lippi ha litigato con molti giocatori. Succede anche tra moglie e marito. Responsabile della sua dipartita? Lo sono per quello che non ho fatto sul campo, io sono uno dei più anziani del gruppo e da me ci si aspetterebbe di più».
L’estate successiva lascia Torino, per raggiungere Vialli al Chelsea, dove ritrova Marcel Desailly, suo amico fraterno. L’esperienza inglese non sarà molto fortunata e Didier terminerà la carriera l’anno seguente a Valencia. Intrapresa l’attività da allenatore, sfiora una Champions League con i francesi del Monaco, sconfitti in finale dal Porto di Mourinho.
Nell’estate del 2004 è il maggiore candidato a sedere sulla panchina della Juventus del dopo Lippi, prima del blitz “umbertiano” che porta a Torino Fabio Capello. L’appuntamento, però, è solamente rimandato; nella turbolenta estate del 2006, infatti, la nuova dirigenza bianconera lo ingaggia, per riportare la Juventus in Serie A.
Quando mancano due giornate alla fine del campionato 2006-07, raggiunta la matematica promozione nella massima serie, Didier rassegna le proprie dimissioni da allenatore della Juventus.
«Accettai la panchina della Juve senza sapere se avrei allenato in C, in B e con quale penalizzazione. Si parlava di -30, -18. Fu un modo per sdebitarmi con chi mi aveva dato tantissimo nei cinque anni vissuti a Torino da giocatore. Ottenendo la promozione in A penso di avere saldato il mio debito, di essermi messo in pari».
Successivamente, Didì, si pentirà di quella decisione: «Sul momento mi sembrò una decisione giusta, coerente. Invece fu un errore tutto mio. Con il passare del tempo ho realizzato che la gente del calcio non aveva colto le ragioni di quella mia scelta. Faccio un esempio: fui contattato dal Liverpool e la prima cosa che i miei interlocutori mi chiesero durante la riunione fu: “Perché se ne andò dalla Juve?”
Io e la società avevamo visioni diverse sul futuro e devo dire che anche chi mi stava vicino, come il mio agente, non mi consigliò al meglio. In pratica nulla fece per ricomporre la frattura. Fatto sta che venivamo da un’annata psicologicamente difficile, in cui ci ritrovammo in città e stadi mai visitati prima dalla Juve. Ogni partita era una battaglia. Consumammo davvero molte energie e sapevo che le aspettative l’anno successivo sarebbero state ancora più alte. Ma non si poteva pretendere di vincere subito lo scudetto, bisognava andare per gradi, ricostruire.
La mia posizione all’epoca era chiara: meglio prendere tre giocatori fortissimi all’anno, piuttosto che sei o sette di medio valore. Per essere all’altezza del proprio passato e delle aspettative che la circondano, la Juve ha bisogno di un continuo ricambio di campioni. Certo la qualità ha un prezzo, ma in quell’anno in B riuscii a lanciare giovani come Marchisio e De Ceglie, quindi potevamo concentrarci su pochi rinforzi di alto livello. E il discorso regge, anche se parliamo di due grandi rinforzi, piuttosto che cinque arrivi di medio valore».