Gli eroi in bianconero: Dino ZOFF

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
28.02.2022 10:13 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Dino ZOFF
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«È stato unico come portiere – scrive il sommo Vladimiro Caminiti – per la sobrietà dello stile non privo di un suo fascino misterioso, segreto, che risaltava in certe partite all’estero, ad esempio in Inghilterra, al forcing martellante cross su cross dei fondisti inglesi, il suo spazzare l’area di rigore con uscite monumentali per tempismo e autorevolezza atletica. Ma più di tutto ha avuto, come portiere, mente e fisico corrispondenti come nella massima di Giovanale (“mens sana in corpore sano”) da cui questo suo rendimento inattaccabile, e le sue mani sempre intatte (un solo infortunio fisico in una carriera interminabile), e la sua strategica sapienza nell’interpretare il ruolo su se stesso, fuori da ogni tradizione. Nessun campione di calcio somiglia a Zoff nell’asprezza contenuta del carattere, così poco facondo e così fecondo di risolutive intuizioni. Il suo sodalizio con Scirea è bellissimo sul piano umano; Boniperti se ne ricorderà il giorno che lo promuove allenatore. per affiancarglielo. Poi, Scirea muore tragicamente e Zoff rifiuta qualsiasi altro secondo».
Figlio di Mario e di Anna, aveva sogni grandi come tutti i ragazzi della sua età. Avrebbe voluto fare il calciatore, da grande. Ma conosceva il significato di certi valori. La fatica, il lavoro. Glieli aveva trasmessi papà Mario, che alla mattina partiva per i campi e tornava solo dopo il tramonto per tenere in piedi la famiglia. Avrebbe voluto fare il portiere di calcio, il piccolo Dino. Ma venne su senza smanie, senza viaggiare troppo con la fantasia. Prima il lavoro, la scuola. Poi il calcio, e se davvero un giorno fossero venuti fuori i numeri allora sì, se ne sarebbe parlato. Era il verbo del Mario, e Dino non fece fatica ad accettare perché era in sintonia.
Così, arrivarono i tempi dell’officina. Dino partiva ogni mattina in bicicletta verso Gorizia per andare a sistemare motori. Altra vocazione. Ci sapeva fare, il ragazzo, e il mestiere gli piaceva. Portava a casa i primi soldi, 60.000 al mese, e i padroni gli permettevano anche di andare a giocare a pallone. Tra i pali, naturalmente. A faticare, anche lì, perché quello era il credo e lo sarebbe sempre stato. I suoi idoli di ragazzo, del resto, erano sportivi che si arrampicavano quotidianamente sui muri alti del sacrificio. Fausto Coppi e Abdon Pamich, eroi di modestia, uomini veri. Campioni nel ciclismo e nell’atletica, discipline in cui non puoi barare quando resti solo con te stesso a misurare i limiti della tua resistenza.
Fatica, sacrificio. Parole ricorrenti, nel vocabolario di un ragazzo del Friuli che imparava a farsi uomo e a esprimersi con poche frasi, con l’arte dei gesti e dei silenzi, degli sguardi e delle pause. Fatica, sacrificio. Nella vita, nel lavoro e anche nello sport. Nel calcio. Il portierino cresceva, sudava, giocando nella Marianese, praticamente sotto casa. Ma era, appunto, un portierino. Piccolo e gracile a 15 anni. Si parlava di lui, vennero a vederlo gli osservatori di Inter e Juve. Ma ai provini lo scartarono, nell’ordine, Giuseppe Meazza e Renato Cesarini. Lui non si abbatté. Si rimboccò le maniche, in officina e sui campi. E nel frattempo maturò, anche fisicamente. Avrebbe potuto diventare un buon meccanico, il figlio del Mario. Diventò calciatore. Diventò leggenda.
Alla fine, qualcuno finalmente notò il portiere della Marianese. Racconta Luigi “Cina” Bonizzoni, che lo fece esordire in Serie A nell’Udinese e lo lanciò definitivamente nel Mantova, che «il vero scopritore di Dino si chiamava Comuzzi, girava tutto il Friuli come osservatore e lo portò all’Udinese». Dove iniziò la leggenda, l’avventura. Una brutta domenica di fine estate, in fondo: è il 24 settembre del ‘61, Dino ha 19 anni e mezzo, Bonizzoni lo mette in campo contro la Fiorentina e lui incassa 5 reti. Le ricorda ancora oggi: «Andai al cinema qualche giorno dopo. Nell’intervallo c’era la Settimana Incom, fecero vedere i gol di quella partita ed io sprofondai sotto le poltroncine».
Poi la retrocessione, la prima stagione da numero 1 in Serie B. Nonostante questo, Dino non riuscì a essere profeta in patria. Due anni difficili, gelo intorno e poca propensione al perdono da parte dei tifosi. Per ogni errore, un processo. Meglio cambiare aria. E l’aria nuova, pulita, la trovò a Mantova. Con Bonizzoni allenatore, appunto. «Lo vidi arrivare con una 600 elaborata che filava velocissima. Il cofano era legato con una cinghia, perché rischiava di alzarsi controvento. Sì, Dino non aveva dimenticato come si curano i motori. Ma quella macchina gliela proibii. Mi sembrava un rischio assurdo». Mantova fu la tranquillità, la maturità. 3 stagioni in A e una in B, una progressione costante. Accanto a compagni di squadra che si chiamavano Gigi Simoni, Gustavo Giagnoni, e poi Tomeazzi, Cancian, Nicolè, Sormani, Schnellinger. E Santarelli, il portiere arrivato da Bologna con un ginocchio malandato, che si fece da parte e prese il giovane Zoff sotto la sua ala protettrice.
Mantova fu la famiglia, anche. L’incontro con Anna, l’amore, il matrimonio. 4 anni indimenticabili, prima di quel trasferimento rocambolesco: doveva essere Milan, all’ultimo momento (addirittura qualche minuto oltre quello che allora era il tempo massimo) fu Napoli. E Napoli fu un altro passo nella costruzione della leggenda. 5 stagioni in cui il calcio italiano imparò a conoscere Dino Zoff. Fino ad aprirgli le porte della Nazionale, dove iniziò la convivenza con il più grande dei suoi rivali, Ricky Albertosi, esattamente l’opposto di Dino dal punto di vista tecnico e caratteriale. All’ombra di Ricky, Zoff visse l’avventura mondiale di Messico ‘70 dalla panchina. Ma l’Europeo ‘68, quello della doppia finale con la Jugoslavia, fu un’emozione tutta sua.
E dietro alle prime gioie azzurre, l’azzurro di Napoli. Napoli e Dino Zoff, un amore apparentemente strano e incomprensibile. Città estroversa, uomo chiuso e riflessivo.

Così vicini, così lontani. Fatti l’uno per l’altra, nonostante tutto. E che squadra, poi, davanti alla porta di Zoff. Altafini e Sivori, Juliano e Panzanato, Canè e Montefusco, Barison e Bianchi. Un gruppo che avrebbe potuto andare oltre il 2° della stagione ‘67-68. Si parlava di scudetto, certo, in quegli anni napoletani. Se non arrivò, fu per certi problemi che si vivevano fuori dal campo: le lotte al vertice della società, la frenesia che agitava i dirigenti e inevitabilmente si ripercuoteva sui giocatori.
È già una stella, Dino Zoff. E il bello deve ancora arrivare. Anno 1972, il campione ha 30 anni precisi quando si chiude il ciclo di Napoli. Quando arriva il richiamo della Signora del calcio italiano. Lassù, a Torino, la Juventus sta rifondando e rinascendo intorno a un gruppo di giovani che faranno storia. Ci sono Bettega, Causio, Anastasi, Altarini, Capello. C’è posto anche per Zoff. Che chiude in valigia i ricordi migliori e parte per una nuova avventura. Durerà 11 stagioni, e forse all’inizio neppure lui l’avrebbe immaginato. Lo inseguiva da tre stagioni, la Juventus.
Certo, i grandi “numeri 1” del passato forse non lo hanno mai amato del tutto: troppo lontano dal concetto di uomo volante, mai percorso da quella vena di follia che per tradizione portava i portieri alla bravata, al gesto spettacolare. In un mondo di adorabili pazzi, Dino Zoff porta la sua saggezza antica. Niente fuochi d’artificio, tanta concretezza. La prima Juve di Zoff, quella del ‘72-73, vince subito lo scudetto. Lui la ricorderà sempre come la più bella, la più spettacolare. «C’erano Causio, Haller, Bettega. La velocità insieme alla fantasia, la classe mescolata al dinamismo. Dopo arrivò gente come Benetti e Boninsegna, che aumentò forza fisica ed esperienza del gruppo. Ma quella prima Juve mi è rimasta nel cuore».
Arrivò altro, dopo: Cabrini, Tardelli e soprattutto gli stranieri. Il primo fu Brady, a ruota arrivarono Platini e Boniek. Gli anni di Trapattoni, per capirci, e di un calcio italiano che riapriva le frontiere e si faceva più scaltro, più scafato. 11 stagioni e almeno due cicli bianconeri. Che finalmente riempirono la bacheca di Zoff di trofei. 6 scudetti, una Coppa Uefa, 2 volte la Coppa Italia. E una serie di record difficili da battere. Di fedeltà, di longevità.
Negli anni della Juventus, Dino Zoff diventa il Mito. SuperDino, per tutti. E gli anni bianconeri sono anche i migliori anni azzurri, quelli in cui Zoff diventa inamovibile e insostituibile tra i pali della Nazionale e tutti gli eredi non possono che accomodarsi ad aspettare che il re abdichi. Quattro Mondiali vissuti intensamente: quello della panchina a Messico ‘70, quello delle delusioni e dei rimorsi per un’Italia incompiuta nel ‘74, in Germania. E poi, i più importanti. Argentina ‘78, la condanna e il declino annunciato. Spagna ‘82, la rivincita e il trionfo del campione che risorge senza troppi proclami, non con le parole ma con il lavoro duro.
In Argentina, Zoff sale sul banco degli imputati. Il 4° posto dell’Italia è considerato una mezza debacle, attribuita soprattutto a lui, alla sua incertezza nel respingere i tiri da lontano. Zoff, si dice, sta diventando vecchio, ha i riflessi appannati. Lui incassa le critiche, non le approva ma tace. E riparte. Quattro anni dopo, più ancora che quelle della finale contro la Germania, l’immagine del trionfo mondiale degli azzurri è quella della mano di Zoff che al 90° della partita tra Italia e Brasile inchioda sulla linea di porta il pallone colpito di testa da Oscar, salva il vantaggio azzurro e trascina la squadra in finale.
E il campione che si rialza guarda dritto davanti a sé, e il suo sguardo sembra rivolgersi a quelli che lo avevano condannato prima del tempo in Argentina. Ditelo adesso, c’è scritto in quello sguardo, che sono vecchio e appannato. Un attimo. Perché Dino Zoff non è un uomo in cerca di rivincite. Quello che gli interessa è andare oltre, migliorarsi. Anche a 40 anni. E a 40 anni, infatti, diventa campione del mondo.
Altra immagine. La carezza a Bearzot dopo la vittoria in finale, prima di alzare la coppa al cielo, da capitano. Un sorriso aperto, finalmente, e quella carezza leggera a un uomo della sua stessa terra, come lui e più di lui spesso ingiustamente criticato. Un uomo a cui Dino Zoff sente di dovere molto, dal punto di vista tecnico e soprattutto da quello umano. Dino Zoff chiude la carriera azzurra dopo 112 partite, per lungo tempo record assoluto per un giocatore italiano. La sua faccia tranquilla e sicura è finita sulle copertine di Time e di Newsweek, le sue mani che alzano la Coppa su un francobollo commemorativo dopo il trionfo mondiale.
Ha giocato con Burgnich e Facchetti, con Castano e Guarneri, ha visto nascere in azzurro Antognoni, Tardelli, Scirea, Graziani, Cabrini, Paolo Rossi e Bergomi. Ha vinto un titolo europeo e un Mondiale, e anche questa impresa in Italia non è riuscita a nessun altro.
«Non posso parare anche l’età», spiega commosso Zoff il 2 giugno 1983, annunciando il proprio ritiro. Dino accetta di allenare i portieri della Juve, ma dopo due anni si dimette. «È un ruolo senza futuro che mi va stretto», chiarisce, assumendo la guida della Nazionale olimpica, che si qualifica imbattuta per i Giochi 1988 di Seul, dove però in panchina si siede Rocca perché Zoff ha scelto di tornare alla Juve, chiamato da Boniperti per sostituire Marchesi. Un 4° e un 3° posto in campionato e la conquista di Coppa Italia e Coppa Uefa, non bastano a Dino per meritarsi la considerazione di Montezemolo, che sogna una squadra-spettacolo e strappa Maifredi al Bologna. «Non mi sono mai aspettato niente da nessuno», commenta gelido Zoff prima di trasferirsi alla Lazio. Quattro stagioni sulla panchina biancoceleste, ingaggiato da Calleri e confermato da Cragnotti, preludono a un nuovo ruolo per Dino, quello di presidente, abbandonato per pochi mesi nel 1997 per rimpiazzare in panchina Zeman e trascinare la Lazio dal 12° al 4° posto.
Due anni più tardi arriva l’offerta per guidare la Nazionale dopo la mancata conferma di Cesare Maldini. Potrebbe essere il coronamento di una carriera straordinaria, che Zoff festeggia conquistando la qualificazione per l’Europeo. In Olanda l’Italia si spinge sino alla finale con la Francia, arriva a un passo dal titolo ma si fa raggiungere sul pareggio al 90′ per poi regalare la vittoria ai francesi, lanciati da un golden-gol di Trezeguet. Una sconfitta onorevole e rocambolesca che non sembra compromettere le quotazioni di SuperDino, sul quale s’abbattono però poche ore dopo le sorprendenti e feroci critiche di Silvio Berlusconi al quale Zoff replica indignato presentando immediate le dimissioni. La decisione è irrevocabile e qualcuno insinua che Dino abbia preso la palla al balzo per sbarazzarsi di un incarico prestigioso ma scomodo.
Per lui però è di nuovo pronto un ruolo alla Lazio, dove subentra a Eriksson, che ha scelto di fare il commissario tecnico dell’Inghilterra. Il 3° posto finale gli vale la conferma per la stagione successiva, ma tre pareggi filati in campionato e lo scivolone casalingo contro il Nantes in Champions League gli costano l’esonero. È il settembre 2001. L’ultima panchina è del campionato 2004-05 quando conduce la neopromossa Fiorentina a una sofferta salvezza subentrando a gennaio al posto dell’esonerato Sergio Buso. Da allora esilio dorato per super-Dino, eroe irripetibile di un’altra epoca.