Gli eroi in bianconero: Carlos TÉVEZ

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
05.02.2021 10:31 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Carlos TÉVEZ
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© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport

«La Juventus è un grandissimo club, che mi ha ridato la vita e le speranze che avevo perso da tempo, sia da calciatore che da uomo. Questa sarà sempre la mia casa. Ho vissuto questi anni da re grazie e voi e alla Società, siete una grande famiglia e vi terrò stretti nel mio cuore. Anche senza di me continuerete a vincere trofei su trofei, è lo spirito bianconero vincere! Al di là del mio futuro che sembra oramai segnato, volevo dirvi queste parole. Tiferò la Juve per tutta la vita!».
Sono le 21:05 del 24 giugno 2015 e con questo messaggio via Twitter, Carlitos Tévez saluta Torino e la Juventus per tornare a casa, nel “suo” Boca Juniors.
Se ne va dopo due stagioni, due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una finale di Champions League. Quarantanove reti in novantacinque partite, decine di assist e tante giocate di livello sopraffino. E pensare che al suo arrivo era bollato come uno spacca spogliatoio, un giocatore rissoso, uno che avrebbe distrutto quel meccanismo perfetto che era la Juve di Antonio Conte. Addirittura lo additarono di essere in sovrappeso e di non fare vita da atleta. Per non parlare della scelta della maglia numero dieci, quella lasciata in eredità da Ale Del Piero. Gli stessi tifosi juventini si indignano, non ritenendolo degno di vestire una maglia così prestigiosa.
L’Apache risponde nell’unico modo che conosce, trascinando i compagni e conquistando presto i tifosi con prestazioni sempre al massimo, non risparmiandosi mai con la rabbia, la determinazione e il coraggio che acquisisce chi cresce nel “barrio” Ejército de los Andes (detto anche Fuerte Apache) di Buenos Aires, chi viene abbandonato dalla madre a soli tre mesi, chi sopravvive alle ustioni provocate dall’acqua bollente che gli cade sul viso ad appena dieci mesi.
«Ho passato un’infanzia difficile, vissuta in un paese in cui droga e omicidi erano all’ordine del giorno. Vivere in quel modo ti fa crescere in fretta e, per fortuna, io sono stato in grado di prendere un’altra strada. Ho sempre voluto dimostrare alle persone che a Fuerte Apache e nella Ciudad Oculta non tutti sono cattivi, così come nelle altre città argentine. Io ne sono uscito e con me molti altri ragazzi. Anche se ci sono tanti che non ce l’hanno fatta. Dario Coronel, lo chiamavano El Cabanha, che ha avuto una brutta storia. Era il mio migliore amico, eravamo sempre assieme, giocavamo a calcio tutto il tempo e poi verso i tredici-quattordici anni lui ha scelto un’altra vita, mentre io ho continuato a giocare a calcio. Sì, era uno dei più forti tra noi ragazzi che giocavamo nel “barrio”. Lui ha deciso così, o forse è stato il destino che lo ha spinto a rubare e a drogarsi, mentre io ho seguito il calcio, perché il mio sogno era quello di giocare a football e diventare quello che sono oggi. Credo che la famiglia sia fondamentale. Mio padre e mia madre credo che per me lo siano stati per l’educazione che mi hanno dato. La mia cicatrice? Potrei fare qualsiasi cosa, mettermi la faccia di chi voglio. Però voglio far capire che l’essere umano è bello per quello che ha dentro e non per quello che è fuori. Non mi interessa l’apparenza, l’importante sono i sentimenti, quello che ho nel cuore. Solo questo è importante, non mi interessa la parte esteriore».
Il Tévez ammirato a Torino è un giocatore sublime, capace di correre per tutto il campo come un mediano qualsiasi, di sfornare assist ai compagni come un trequartista dai piedi fatati e di inquadrare la porta come il più efficace dei bomber. Ventuno volte perfora il portiere avversario nella prima stagione, a cominciare dalla prima partita ufficiale della Juventus, allorché conquista la Supercoppa Italiana, battendo la Lazio per 4-0. Alcune reti sono perle di rara bellezza, come il goal che suggella la vittoria a San Siro contro il Milan, dopo il vantaggio di Llorente.

E proprio con il Navarro, Carlitos forma una coppia così tanto perfetta che qualcuno la paragona a Bettega e Anastasi, due che hanno fatto la storia della Juve! Lo spagnolo crea gli spazi (non disdegnando, però, la conclusione personale), dove si fa a infilare l’Apache e per le difese avversarie sono spesso dolori. Segna una tripletta contro il Sassuolo, una doppietta contro il Parma e contro il Verona e, finalmente, la rete in Europa che mancava da più di cinque anni.
«La Juve è una grande famiglia – rivela – andiamo tutti molto d’accordo. Tra i compagni, con i tifosi, con la gente, ci troviamo tutti bene. Ciò fa sì che ci sia unione, che questo gruppo sia una vera squadra e che la Juventus cresca giorno dopo giorno. Non penso al fatto che indosso la maglia numero dieci, sarebbe come se volessi mettermi ancora più pressione. E, sotto pressione, si può anche giocare male. E, allora, io gioco come quando ero nel mio quartiere. Penso che sia per questo che mi è andata sempre bene. Non posso mettermi a pensare alla storia. Certo, la storia è storia, bisogna rispettarla, ed è ciò che faccio. So che la gente ama questa maglia, che ha un affetto speciale per ciò che ha rappresentato, per i giocatori che l’hanno indossata. Per questo la rispetto. Però, quando entro in campo con tutta la squadra, una maglia è importante e significativa come l’altra. Tutte sono maglie della Juventus, una cosa dal grande significato».
Nella seconda stagione, Carlitos timbra il cartellino alla seconda giornata contro l’Udinese e non si ferma più. Arrivano anche i goal in Champions League che permettono alla “Vecchia Signora” di passare il turno dei gironi. Segna anche un’inutile doppietta a Doha, contro il Napoli, nella Supercoppa Italiana. E mentre in campionato continua a stupire (memorabile la sua rete a Parma, dopo essere partito dalla propria metà campo e aver scartato la metà dei giocatori avversari), sono le reti nell’Europa che conta a fare di Tévez quel top-player che permette alla compagine bianconera di fare il salto di qualità. Segna in entrambe le partite contro il Borussia Dortmund, agli ottavi di finale. La rete in Germania, realizzata dopo pochi minuti con un tiro imparabile da fuori area, è di rara bellezza. Segna anche su punizione, diventando il vice Pirlo: fondamentale la rete all’Olimpico nel pareggio contro la Roma che, di fatto, assegna il quarto scudetto consecutivo ai bianconeri.
Ma è proprio sul più bello, quando la Juve è lanciata verso la finale della Coppa dei Campioni, che qualcosa si spegne nella testa di Tévez. Le sue prestazioni cominciano a essere opache: certo la grinta e la determinazione sono sempre quelle, ma la porta diventa improvvisamente troppo piccola perché sia centrata e i passaggi ai compagni sono sempre o troppo corti o troppo lunghi per essere finalizzati. E la delusione più grande è proprio a Berlino, contro il Barcellona, nella partita che significherebbe, per la Juve, conquistare un “triplete” storico e che eleggerebbe Carlitos come uno dei migliori giocatori del mondo. Ma l’Apache, gioca una partita impalpabile: vero, da una sua conclusione nasce il goal del pareggio di Morata, ma è un tiro sbilenco non da Tévez. Ha un’altra occasione, ma la fallisce clamorosamente. E così, senza il suo trascinatore, la compagine bianconera perde l’ennesima “Coppa dalle grandi orecchie”.
Due settimane dopo l’annuncio che l’Apache torna a casa con un anno di anticipo sulla scadenza del contratto. La sensazione è che passerà parecchio tempo prima di rivedere a Torino un giocatore simile e che la maglia numero dieci bianconera abbia trovato l’ennesimo degno possessore.