Gli eroi in bianconero: Roberto BETTEGA

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
27.12.2019 10:25 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Roberto BETTEGA
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Nato a Torino il 27 dicembre 1950, a dieci anni Roberto Bettega entra a far parte del NAGC juventino, magistralmente condotto da Mario Pedrale. Siamo nel 1961 e il calcio è già, il punto fermo dei suoi pensieri. «È vero – ricorda – pensavo soltanto a giocare al calcio. Per ore e ore avrei soltanto inseguito quella sfera di cuoio. Poi, da tifoso bianconero, ero ben felice di essere finito tra i Pulcini della Juve. Nel 1962 faccio la mia prima apparizione allo Stadio Comunale: prima di Juventus–Inter si affrontano due squadre del NAGG bianconero. C’era molta gente, ma non ero affatto emozionato, A proposito: agli inizi della mia carriera giocavo da mediano. La “svolta storica”, da centrocampista ad attaccante, avviene nel 1964–65, per merito dell’allenatore degli Allievi. Grosso. Il mio idolo giovanile? John Charles. Mi piaceva il suo modo di giocare, la sua bravura nel colpire di testa in perfetta elevazione... Degli anni giovanili, ricordo le partite con la Nazionale Juniores giocate insieme a gente come Bordon e Spinosi».

Nel 1969–70 Bettega, viene ceduto in prestito al Varese di Liedholm, in Serie B. Chiuso da gente esperta come Nuti e Braida, deve accontentarsi di giocare nel campionato De Martino dove, a suon di goal, diventa uno dei tiratori scelti di quel torneo. Intanto, in palestra, viene curato dal professore Nico Messina, preparatore atletico dell’Ignis Varese di basket Dice Bettega: «Devo moltissimo a Messina: mi seguiva con cura, con amore. Mi ha potenziato fisicamente, insegnandomi i segreti per ottenere un’elevazione eccezionale». Liedholm lo descrive così: «Possiede le qualità essenziali per una punta: piede e testa, cioè buon trattamento di palla ed elevazione. È un altruista e un opportunista secondo le circostanze e ciò, naturalmente, corrisponde al meglio per un uomo d’area di rigore».

Il debutto in Serie B avviene il 10 ottobre 1969: Modena–Varese 0–1, goal di Nuti, con il giovane esordiente sugli scudi. «Non ero troppo nervoso. I compagni di squadra, e soprattutto il centrocampista Bonatti, mi davano dei buoni consigli. Giocare a calcio era la mia passione, il mio hobby, il mio chiodo fisso. Dandomi fiducia, Liedholm mi ha reso la persona più felice del mondo». Segna il suo primo goal da professionista la domenica successiva: Perugia–Varese 0–1. Al 41’ Roberto infila la porta perugina su corta respinta del portiere Cacciatori. Di Bettega si parla come della più grande promessa del calcio nostrano. E con il goal realizzato al Perugia inizia la serie d’oro di Roberto che, con tredici goal in trenta partite, a pari merito con Braida e Bonfanti, vince la classifica cannonieri. «Un successo non sperato ma che, dopo poche settimane dal mio debutto, iniziava a prendere consistenza, visto che continuavo a segnare e a convincere. Il goal più bello? Penso di averne fatti diversi. Ricordo la doppietta col Mantova, la rete con l’Arezzo, quella con l’Atalanta. Una curiosità: all’ultima di campionato batto un rigore contro il Piacenza realizzandolo. Dovranno passare dieci anni prima che, in campionato, prenda nuovamente la rincorsa dal dischetto. Io parto da un principio ben preciso: si può vincere la classifica cannonieri soltanto usufruendo dei calci di rigore».

L’annata strepitosa di Bettega a Varese induce l’accoppiata Boniperti–Allodi a riportare il giovane bomber a Torino. Il primo a gioirne è l’allenatore Armando Picchi (ex libero dell’Inter mondiale di Helenio Herrera), che reputa Bettega un autentico campione. Nella Juventus, stagione 1970–71, Bettega batte subito la concorrenza di Landini II e diventa il compagno di tandem di Petruzzu Anastasi. La prima rete ufficiale in bianconero, Bobby la mette a segno in pre–campionato, contro il Torino: «Un cross di Pietro: io intervengo di destro e infilo nell’angolo». Stadio Cibali, domenica 21 settembre 1970, Catania–Juventus 0–1, esordio in Seria A. «Ero completamente concentrato sulla partita e ogni altro pensiero, compresa l’emozione, scomparve. Appena toccato il primo pallone, sparì anche la paura di sbagliare; andò bene il primo stop e il successivo passaggio, per cui, fortunatamente, tutto proseguì nei migliori dei modi, tanto che, verso la fine della partita, riuscii a segnare il goal della vittoria, con un bel colpo di testa. In porta c’era l’amico Tancredi, terzini Spinosi e Furino, stopper Morini, libero Salvadore e Cuccureddu mediano di appoggio. In attacco Haller ala tornante, Marchetti e Capello mezze ali, Anastasi al centro dell’attacco ed io, con la maglia numero undici, schierato all’ala sinistra. Arriviamo al quarto posto in classifica dietro l’Inter di Boninsegna, il Milan e il Napoli. Tredici reti al primo anno non sono male; mi classifico al quarto posto dietro Boninsegna, Prati e Savoldi, cioè tutti cannonieri affermati. Purtroppo, da un punto di vista umano, subiamo un grave trauma: muore l’allenatore Armando Picchi, uomo buono, intelligente e sensibile. È un brutto colpo per tutti noi: eravamo legati da profonda amicizia e stima a quell’uomo generoso».

Il campionato successivo è quello del grandissimo goal di tacco a San Siro contro il Milan, battuto per 4–1; quella rete rimane tuttora negli occhi di tutti i tifosi juventini come uno delle più belle e più importanti segnati da Roberto. «Certi goal non li potrò mai dimenticare. La prima rete la infilo di testa, in “schiacciata” su perfetto cross di Causio. La seconda, forse il mio “centro” più bello, lo realizzo di tacco beffando il portiere Cudicini». Il 16 gennaio 1972 c’è Juventus–Fiorentina: Bettega fa in tempo a siglare il decimo goal in quattordici gare e il giorno dopo è ricoverato in ospedale per un’infiammazione polmonare. Molti, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, temono per il suo futuro. Guarisce grazie al lungo soggiorno in montagna e alle cure di Emanuela, sua moglie. «Un brutto colpo, davvero... Ma ho saputo reagire alla malasorte con coraggio, senza perdermi d’animo, A vent’anni è giusto non demoralizzarsi. Recupero dopo otto mesi lunghi difficili». A giugno Boniperti annuncia: «Sarà lui il migliore acquisto della stagione».

Dal 1972 al 1975, Roberto Bettega si segnala più come punta d’appoggio che come vero e proprio cannoniere: in tre stagioni, infatti, mette a segno ventidue reti, risultando, però, di fondamentale aiuto per gente come Anastasi e Altafini. «In effetti ritornavo a giocare secondo una mia predisposizione naturale, facendo cioè la mezzapunta, tornando indietro a centrocampo oppure ritrovandomi in difesa. Più che fare i goal, mi piace giocare. Più che un successo personale, preferisco la vittoria della squadra. È il mio carattere. Sono comunque anni importanti per la Juventus, che vince lo scudetto nel 1972–73 e nel 1974–75; nel 1973–74, invece, terminiamo secondi alle spalle della Lazio–rivelazione di Maestrelli e Chinaglia. Ricordo bene la stagione del sedicesimo scudetto. Siglo soltanto sei goal, ma sono quasi tutti importanti: contro Milan, Napoli, Vicenza... Gli anni Settanta parlano soltanto bianconero».

Chi lo ha visto giocare non può che ricordarlo come uno dei più grandi in maglia bianconera; tecnica di base da manuale del calcio, forza fisica, intelligenza calcistica e personalità. Giocatore capace di rendersi utile in ogni zona del campo in virtù di una visione di gioco davvero sbalorditiva e inconsueta per un attaccante. Il suo numero migliore è il colpo di testa: con Santillana, quanto di meglio ci sia in circolazione in quegli anni. Roberto, meno esplosivo dello spagnolo, è fortissimo in acrobazia, grazie ad un tempismo quasi sovrumano, che gli permette di impattare la palla al meglio (grazie anche a prodigiose torsioni del busto e del collo). Il goal che fa alla Finlandia, ne costituisce un perfetto compendio, così come molti altri: quello all’Inghilterra all’Olimpico, al Milan a San Siro dopo una perfetta volata del Barone Causio sulla destra, la doppietta ai francesi dell’Olympique il giorno del rientro dopo la malattia, alla Jugoslavia con un sinistro al volo a incrociare, al Celtic in giravolta. Tanti goal, tante prodezze, sempre e comunque da juventino vero, intriso nell’anima di questi colori.

Bettega ritorna prepotentemente alla ribalta nella classifica cannoniere del 1975–76 con quindici goal e nel 1976–77 con diciassette. «Di queste trentadue reti, ce n’è una che ricordo con piacere. Quella che ho messo a segno a Marassi contro la Sampdoria il 22 maggio 1977 e che ha permesso alla Juventus di vincere matematicamente lo scudetto a quota cinquantuno punti, davanti a un Torino mai domo. Della stagione precedente ricordo i goal contro l’Inter al Comunale, contro il Bologna, contro la Lazio all’Olimpico. Purtroppo perdiamo lo scudetto nel giro di tre sfortunate giornate».

1977–78: diciottesimo scudetto e undici goal per il bianconero. «In questa stagione inizio subito bene, realizzando una doppietta, nella prima di campionato, al Foggia; ricordo ancora la rete che infilo di sinistro al Perugia, il goal d’anticipo al Verona, la doppietta al Vicenza di Paolino Rossi all’ultima di campionato... Sono diciotto scudetti: una felicità immensa per me e i miei compagni di squadra».

Nel 1978–79 lo scudetto va al Milan di Liedholm; Bettega mette a segno nove goal: due contro la Lazio, due col Verona, uno al Milan, ancora uno al Verona, uno al Catanzaro, uno alla Roma e uno all’Avellino. Nella stagione successiva, la definitiva apoteosi: sedici goal, di cui gli ultimi sette consecutivi e due su penalty (contro Perugia e Fiorentina). Di questi sedici, uno su tutti: «Quello contro l’Inter al Comunale, perché vinciamo per 2–0 contro i futuri Campioni d’Italia mostrando un gioco vivace e incisivo. Segno, sinceramente, un gran goal. 32’: Gentile crossa dalla sinistra, salto di testa anticipando alla perfezione Bordon e Mozzini, infilando sulla sinistra. Poi non dimenticherò mai l’ultimo sigillo, anche se segnato su rigore: è il goal che mi permette di vincere la classifica cannonieri, davanti a giocatori bravi come Altobelli, Rossi, Graziani e Selvaggi. Sono contento e voglio ringraziare tutti i miei compagni, che mi sono stati vicini e, che mi hanno aiutato a compiere questa impresa».

Vince un altro scudetto nel 1980–81, comincia molto bene il torneo successivo (cinque reti in sette partite) quando in Coppa dei Campioni, contro l’Anderlecht subisce un grave infortunio in uno scontro con il portiere Munaron: rottura dei legamenti del ginocchio, a trent’anni si riparla di carriera finita. Il viaggio in Spagna, per il Mondiale, è perduto. «L’infezione polmonare, se ci penso adesso, mi dico che ero un incosciente ma, probabilmente, era la forza reattiva dei vent’anni. Ho giudicato la malattia un incidente di percorso, niente di più. È stato molto più difficile sopportare le conseguenze dell’infortunio al ginocchio e non solo per il dolore che mi ha torturato a lungo. La malattia si affaccia, invece, con strani sintomi, un po’ di tosse la settimana prima del match con la Fiorentina. Sì, ho un leggero mancamento prima della partita con l’Inter, a San Siro, quindici giorni prima, un malessere attribuito alla tensione nervosa, all’aver fatto un massaggio vicino a un calorifero: eravamo in pieno inverno. Comunque, la tosse suggerì ai medici di fare una radiografia; quando il male mi sbatte in un letto, ho già segnato dieci reti. Perdo nove mesi e praticamente l’anno successivo, poiché il fisico si è appesantito e non è facile eliminare sette chili per rientrare nei limiti abituali. Tant’è che l’estate seguente, invece che in vacanza, resto a Torino a sudare. Ritrovo il mio peso normale dopo diciotto mesi. L’incidente con Munaron, invece, è stato tutto più dolente e faticoso; è un infortunio che lascia il segno e modifica la mia struttura fisica».

Rientra nella stagione 1982–83, giocando insieme a Platini, Boniek e Paolo Rossi; arretrando la sua posizione in campo, dimostra tutte le sue qualità tecniche e la sua intelligenza calcistica. Questo campionato, purtroppo, non è felice, la sconfitta di Atene in finale di Coppa dei Campioni è una delusione enorme, per quella che forse resterà la più bella Juventus degli ultimi vent’anni: «Non c’è giornalista in Europa che, quella notte, avrebbe scommesso una Dracma sulla vittoria dell’Amburgo. Eppure, non so che cosa ci succede; non è stanchezza, né forma scadente, è solo questione di testa. Il Mondiale del 1982 non è cosa per me; a causa dell’infortunio non vengo convocato. Brontolo, però mi metto l’anima in pace. Ma ad Atene la Juventus la fa grossa. Se avessi la facoltà di rivivere un avvenimento nella mia carriera, tornerei a quel maggio maledetto e rigiocherei la finale con i tedeschi. Loro non demeritano, solo che noi siamo irriconoscibili. Lascio, perciò, il calcio senza realizzare un sogno meraviglioso».

Abbandona la Juventus l’anno successivo per andare in Canada, nelle file del Toronto Blizzard, per dare lustro a un calcio in ascesa ma ben presto stretto dai debiti. Il 3 novembre 1984 quando si parla di un suo trasferimento part–time all’Udinese prima di chiudere la parentesi oltreoceano, lo schianto in auto presso Santhià, sull’autostrada. Forse l’amico dei tempi del Varese, Ariedo Braida, l’aveva convinto a giocare a Udine, per poi intraprendere la carriera di manager, ma tutto sfuma a causa di questo incidente. Bettega salda il suo debito con il calcio canadese e torna in Italia, dove entra nello staff di una trasmissione sportiva di Canale 5, fino a diventare uomo importantissimo della nuova Juventus in collaborazione con Moggi e Giraudo, con i quali conquista altri prestigiosi trofei e continua a scrivere le pagine gloriose dell’amata Juventus.

Nell’estate del 2007, abbandona l’incarico di dirigente; dopo una vita in bianconero, il saluto non può essere che molto triste. Nel dicembre del 2009, ritorna in società, con la carica di vice direttore generale, per lasciarla dopo pochi mesi causa l’arrivo di Andrea Agnelli ai vertici della società juventina.