Gli eroi in bianconero: Renato CESARINI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
11.04.2023 10:20 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Renato CESARINI
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Un giorno Edoardo Agnelli lo trova in un ristorante in orario di allenamento. Gli fa mandare una bottiglia di champagne dal cameriere per ricordargli chi è che comanda. Cesarini gliene fa arrivare cinque, con tanto di biglietto. «Domani vinciamo e segno». Andrà così. Il più matto, il più estroso giocatore che abbia vestito la maglia della Juventus, era venuto dall’Argentina senza incontrare quelle difficoltà che avevano ostacolato l’ingaggio del suo amicone Raimundo Orsi, perché era meno oriundo di lui: infatti, poteva essere considerato quasi italiano, essendo nativo di Senigallia. Soltanto dopo la sua nascita, i genitori avevano deciso di lasciare le Marche per trasferirsi in Sud America.
L’estroverso Renato pareva costruito apposta, quasi fatto su misura per la disperazione del severissimo barone Mazzonis, che pure aveva caldeggiato la sua venuta in Italia, ma che era solito vigilare sulla buona condotta dei giocatori come un gendarme. Veniva diligentemente aiutato in quest’opera di vigilanza dall’allenatore Carcano, ancora più direttamente interessato di lui, com’era anche logico.
Gli aneddoti sulle mattane di Cesarini si sprecano, nemmeno il tempo li ha cancellati o scoloriti. Perché il Cè (così lo chiamavano nella squadra in cui il solo Combi non tollerò deformazioni al proprio nome), adorava i locali notturni, l’eleganza, le carte da gioco, le donne di classe, lo champagne. Era assolutamente disinvolto con lo smoking come in tenuta di gioco. Pagava sovente per tutti, elargendo denaro in allegria e pagando senza scomporsi tutte le multe che Mazzonis e Carcano gli facevano piovere addosso. Era talmente simpatico che in più di un’occasione qualche dirigente (come l’avvocato Tapparone, suo grande ammiratore), finiva per pagare la multa.
Alla Juventus la disciplina veniva osservata e fatta osservare secondo una prassi ben precisa. In generale Carlo Carcano non interveniva mai di persona, limitandosi, in caso di necessità, ad attizzare lo sdegno dei dirigenti o addirittura della presidenza, fornendo gli estremi dei misfatti compiuti e accertati. Queste notizie o queste prove, Carcano se le procurava attraverso una fitta rete di informatori reclutati tra i ragazzini che prezzolava alla somma di un paio di lire per prestazione. I piccoli stavano appostati per ore in vicinanza delle abitazioni dei calciatori, attentissimi a riferire ogni entrata o uscita fuori ordinanza. Era una bella lotta, perché Cesarini aveva saputo la faccenda dei ragazzini e riusciva sovente a neutralizzarne l’opera, offrendo più soldi di quanto non facesse Carcano!
Una volta informato il barone Mazzonis delle marachelle del Cè, l’allenatore se ne lavava le mani ed entrava in funzione il vicepresidente con un primo avvertimento amichevole verso chi aveva mancato. Se tale avvertimento cadeva nel vuoto, Mazzonis spediva l’avviso ufficiale, gelidamente formulato sotto l’invito a presentarsi in sede in tal giorno, di solito alle ore diciotto, per comunicazioni «che La riguardano». Proprio con la elle maiuscola.
Le multe per le infrazioni più gravi erano di mille lire. Cesarini le pagava senza battere ciglio, ma qualche volta riusciva a scendere a patti: «Se gioco da campione e segno almeno un goal nella prossima partita (e in genere sceglieva una gara difficile), la multa viene cancellata!» E quasi sempre Cesarini riusciva ad ottenere la cancellazione della punizione.
Sul terreno di gioco, Cesarini sapeva essere protagonista. Innanzitutto non aveva paura di nessun avversario, perché era dotato di un fisico eccezionale: lo dimostrava anche in allenamento, durante la partita di metà settimana, dopo aver magari trascorso un paio di notti in bagordi. E poi Renato era in possesso di una tecnica personale e di un’intelligenza di gioco raramente riscontrabili. Aveva intuizioni tattiche tanto improvvise quanto felici; era, insomma, un campione completo. Era solito dire ai ragazzini: «Tu, ragasso, la pelota te la devi portare anche nel letto!».
Esordisce in maglia azzurra nel 1931, ma la indossa solo undici volte, troppo ribelle per Pozzo, che gli preferisce gente più solida. Però arriva quel minuto lì, straordinario e unico. È inverno, a Torino, stadio Filadelfia, c’è pioggia e fango, è il 13 dicembre 1931, l’Italia gioca contro l’Ungheria. Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, 1-0, goal di Libonatti. Avar fa l’uno pari, Orsi riporta l’Italia in vantaggio ma Avar segna di nuovo: 2-2 al novantesimo. Tutto o niente da rifare.
Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. A un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all’ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per 3-2. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro».
Renato a venticinque anni entra nella storia, ma non se ne accorge subito. Dovrà passare una settimana. Eugenio Danese è il primo giornalista a parlare di Zona Cesarini, quando il 20 dicembre l’Ambrosiana batte 2-1 la Roma con un goal di Visentin all’ottantanovesimo. In Zona Cesarini, appunto. Così si dice da allora, così indica lo Zingarelli. Sono tanti i giocatori famosi, ma Renato Cesarini detto Cè, nato sulle colline di Senigallia nel 1906 e morto a Buenos Aires nel 1969 è l’unico calciatore diventato un modo di dire.

PIERA CALLEGARI, DAL SUO LIBRO “LA JUVENTUS”
Cesarini escogitava a getto continuo iniziative che parevano fatte apposta per togliere il sonno a Mazzonis. Giunse persino ad aprire un locale da ballo molto lussuoso in Piazza Castello, sopra il famoso Bar Combi, che apparteneva alla famiglia del portiere bianconero. Due orchestre vi si alternavano per buona parte della notte, offrendo al pubblico infinite serie di tanghi, la danza che a quei tempi furoreggiava. Facendosi interprete di tanto fervore per il ballo argentino, Cesarini vestiva gli orchestrali da gauchos.
Naturalmente, dato che spesso viveva la notte sino in fondo, poteva succedere che il Cè in mattina fosse in ritardo agli allenamenti e lo vedessero arrivare quando già i compagni sgambavano in campo. Accadeva di scorgerlo che si buttava giù dal taxi con il cappotto di cammello a coprire il pigiama. Era generosissimo. Dava cinque lire di elemosina quando la gente elargiva venti o cinquanta centesimi, e nessuno che gli aveva chiesto denaro a prestito se ne andava a mani vuote. Poiché era felice di vivere, gli piaceva avere intorno gente felice, che è il segno della generosità più genuina.
Un temperamento del genere, tanto estroverso, lo spingeva spesso a creare imbarazzi a se stesso e ai compagni di squadra e nelle occasioni più disparate. Una volta, capitati in visita a una piscina, dichiarò che si sarebbe buttato dal trampolino più alto, con vestito e cappotto, pur non sapendo nuotare. Non gli badarono, perché questo pareva troppo anche per uno come lui, che invece si buttò per davvero e dovettero intervenire in tre per tirarlo ai bordi della vasca mentre stava affogando!

UN ANEDDOTO RACCONTATO DAL SUO COMPAGNO BERTOLINI
In Nazionale giocai con Renato Cesarini, il più imprevedibile degli uomini che ho conosciuto. Rammento un fatto, tutto particolare, che serve forse a illustrare il carattere di quel grande giocatore. Si doveva affrontare la Spagna a Bilbao, durante una tournée nella penisola iberica. Furoreggiava a quel tempo, nelle file spagnole, una mezzala di nome Cirri. Era una specie di Del Sol e Suárez messi insieme.
Vittorio Pozzo, che era solito rifuggire dai ripieghi tattici e dagli accorgimenti difensivi, meditò la maniera di annullare la mente della squadra spagnola piazzandogli alle costole Cesarini con il compito di non perderlo mai di vista, di marcarlo a distanza ravvicinata. «Dove lui va, tu devi andare», disse il commissario tecnico a Renato.
Cesarini rispettò le direttive, cancellando dalla gara il pur valido Cirri. Ma lo fece in un modo così deprimente per lo spagnolo che Cirri che, a un quarto d’ora dal termine, con i nervi a pezzi, lasciò volontariamente il terreno di gioco. E Cesarini gli andò appresso, fra lo stupore di tutti, seguendolo negli spogliatoi.
Pozzo, annichilito, a fine gara tentò di rimproverare Cesarini con una certa durezza, ma ne venne disarmato da quel matto di Renato che replicò con angelico candore: «Quando una sentinella ha una consegna, deve rispettarla fino in fondo».

ANGELO CAROLI
Una figura uscita da una pagina de “Le Mille e una notte”. Aveva uno sguardo mobilissimo, non stava mai fermo e parlava, parlava, parlava. Era capace di un’ironia pungente, che non offendeva. Andava d’accordo con tutti. Con Sivori era legato da un vincolo fraterno. A volte se ne andavano a spasso per il prato a raccogliere il quadrifoglio. Era stato Sandro Zambelli, durante l’aureo quinquennio, a insegnare a Cesarini l’arte di quella ricerca botanica.
Da giocatore il Cè era un funambolo capace di follie calcistiche e di atti generosi oltre l’immaginazione. Era un acrobata che sapeva colpire il pallone con la testa, lassù, ad un passo dal cielo. Come tecnico aveva intuizioni istintive e poco razionali. Preferiva lasciarsi accarezzare dal genio del solista pio che inseguire la logica di una strategia da applicare al collettivo. Con Parola costituì una coppia ben assortita. La prudenza subalpina si apparentava bene all’estro sudamericano. Renato aveva dolcezza pedagogica soprattutto nel curare i particolari. A me insegnò molte cose, come nessuno aveva fatto in precedenza. Gli volevamo tutti bene.
«Dalle del tu alla palla – mi diceva – non maltrattarla, non vedi che è come una bambola meravigliosa?». E correva per il campo di Cuneo, con i gesti leggeri e coordinati di una ballerina, eseguiva i passi doppi con la posizione esatta del bacino: «È tutto questione di equilibrio», aggiungeva.
Aveva cinquantaquattro anni e seguiva gli allenamenti scalzo e a torso nudo e con un paio di mutande bianche qualche numero più grandi della sua taglia. Era impossibile non volergli bene, e impossibile non volergliene ancora. Raccontava che un giorno, al termine di una partita movimentata della Nazionale all’estero, si vide circondato da un gruppo scalmanato di contestatori e da pochi tutori dell’ordine per difenderlo; strappo una sciabola, fodera compreso, a un poliziotto e comincio a rotearla nell’aria per farsi largo fra i tifosi e mettersi al sicuro. Un po’ di verità, tanta fantasia; ma noi, ad ascoltarlo, stavamo tutti assorti.
Forse eravamo ingenui. Anche il calcio di quei tempi era ingenuo.
Un giorno mi raccontò che negli anni 1930-35 si sedeva spesso in un caffè di Piazza San Carlo insieme con Orsi, altro artista ineguagliabile della colonia argentina, e scommettevano grosse somme sul colore del cavallo che sarebbe passato per primo davanti a loro. Bianco o nero? Questo il dilemma! Una volta bisticciarono perché il puledro era pezzato e non furono capaci di mettersi d’accordo. Romanticismi perduti e assurdi.