Gli eroi in bianconero: Gaetano SCIREA

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
25.05.2023 10:16 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Gaetano SCIREA
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Nasce a Cernusco sul Naviglio il 25 maggio 1953. Comincia la sua strada di calciatore nel ruolo di punta, anzi, di centrattacco. Dopo aver giocato sempre nel ruolo di attaccante nei ragazzi della squadra del San Pio X, firma il primo cartellino per i colori dell’Atalanta. È un suo amico, Crinella, a portarlo a Bergamo per un provino. Il dottor Brolis, addetto al settore delle giovanili neroazzurre, gli fa firmare il cartellino: Gaetano ha quattordici anni. Sotto la guida di Capello e Castagner, Scirea è utilizzato in prevalenza all’attacco, qualche volta ala e qualche volta interno. Come interno gioca due stagioni nella Primavera della squadra orobica. Benino, ma senza squilli di fantasia: «Capello mi ha salvato! Ero, infatti, sul punto di lasciare il calcio. Credevo di aver sbagliato mestiere; mi sembrava di essere un fallito».
Capello, infatti, un bel giorno decide di impiegarlo nel ruolo di libero: «La maglia che abitualmente indossavo era quella di mezzala, e a battitore libero giocava Belotti, il mio amico Vittorio. Poi Belotti si ruppe una gamba (stavamo giocando a Melegnano) e Capello, l’allenatore, decise su due piedi di sostituirlo proprio con me, una mezzala. Ricordo tutto di quegli anni. E con un certo piacere rammento il successo ottenuto nel campionato Primavera nella doppia finale con la Roma, 2–2 fuori e 2–1 in casa. Il nostro allenatore era Castagner, allora giovanissimo. Uno che di pallone ne capiva parecchio, te lo assicuro».
Per un infortunio capitato a Savoia, Gaetano si vede schiudere le porte della prima squadra. È la stagione 1972–73, Scirea disputerà venti partite di fila in serie A, guadagnandosi il bastone da titolare per la successiva stagione nei cadetti. Corsini è stato il tecnico che lo ha lanciato nel massimo campionato. Heriberto Herrera quello che lo ha affinato, dandogli le attuali dimensioni di libero di gran lusso.
Gaetano diventa ben presto un uomo mercato e, tra i tanti osservatori che lo spiano, c’è Romolo Bizzotto; il suggerimento di tenere Scirea sotto osservazione pare sia partito dall’ex bianconero Bonci. Fatto sta che qualcuno lo dice a Gaetano ma lui, timido e semplice, pur guardando alla Juventus con occhio languido, non riesce a crederci. «Il campionato era finito ed io ero a casa, senza particolari preoccupazioni. A un certo punto mi venne a trovare Brolis, un dirigente, e senza molti preamboli mi comunicò che la Juventus mi aveva acquistato, dovevo andare a Torino alle visite mediche. Impazzivo dalla felicità. E quella notte, credimi, non ce la feci proprio a prendere sonno. Sembrerà forse una scontatezza, ma è la pura verità. Credo che ogni calciatore, forse anche ogni ragazzino, abbia sognato una volta nella vita di arrivare a far parte della Juventus. Io ci ero arrivato davvero».
Lui pensa a uno scherzo ma, arrivato a casa, trova l’intera famiglia in agitazione. Fu una festa e ci scappò anche il brindisi, confessa lui ancora emozionato al ricordo. Poi le visite, la conferma, l’appuntamento al ritiro del 29 luglio: «Mi ricordo che non volevo scendere dalla macchina sulla quale mio fratello mi aveva accompagnato». E il fratello dovette quasi tirarlo giù di peso.
A Villar Perosa è messo in camera nientemeno che con Bettega. «Fui fortunato. Giunsi alla Juve proprio in coincidenza con l’abbandono di un campione del calibro di Salvadore ed evidentemente dovevo già godere della stima dei responsabili, visto che mi si diede senza problemi la maglia numero sei». L’ingresso in squadra, dopo la preparazione lo ricorda con sofferenza: «La prima partita in Coppa Uefa, mi faccio male alla caviglia. Così, appena cominciato, sono stato costretto a fermarmi per due partite in campionato. Provavo tanta gioia ma spesso scendevo in campo con le gambe che tremavano, mi ha aiutato la squadra vincendo lo scudetto, il mio inserimento non poteva coincidere con miglior risultato».
Pagato quello scotto, Scirea gioca ben ottantanove partite consecutive, partecipando alle emozioni e alle gioie degli scudetti più brillanti, quello dei cinquantuno punti e alla conquista della Coppa Uefa. E, a ogni partita, l’impegno per essere sempre all’altezza della situazione: «Giocare libero è un impegno continuo. Devi controllare tutti e nessuno. Devi possedere un intuito eccezionale. Capire quando il terzino parte avanti e prendere subito in consegna l’attaccante che resta incustodito, tenendo ben presente lo spazio dal quale possono venirti le sorprese del contropiede. Poi, quando intervieni, devi cercare non solo di liberare l’area, ma appoggiare il gioco in maniera da far ripartire i tuoi; semplice da dire, ma provate a farlo, quando il gioco è veloce e tutti sono in condizione di metterti in difficoltà».
Per lui, nulla sembra essere eccezionale, poiché ha imparato a misurare con il metro del buonsenso ogni fatto della vita, da quella intima di casa, a quella professionale di giocatore di calcio: «Così riesco a far durare di più il piacere delle cose buone e ben fatte e tengo sempre davanti alla mente che, se rifletto un pochino di più sugli errori, posso evitare di ricadervi. Sono stato baciato in fronte dalla fortuna. La vita che facciamo è bellissima, piena di agi e di soddisfazioni sia economiche che personali. Quando qualcuno mi domanda che cosa può perdere, un ragazzo, decidendo di fare il calciatore, non so che dire, Mi sembrerebbe di prendere in giro me stesso e tutti i ragazzi che, per ottenere una minima parte di quanto otteniamo noi, sono costretti a fare lavori più faticosi e umili».
Qualcuno lo rimprovera dicendo che sia “troppo buono”, e quindi incapace di sfoderare, una volta sul campo, quella grinta e quella cattiveria che, a certi livelli, sono ritenute doti indispensabili. «Non è vero niente. E con questo non voglio dire, sia chiaro, di essere un tipo “senza cuore”. Ma in campo so farmi rispettare e, se non fosse così, non avrei certamente potuto arrivare ai livelli cui, da tempo, mi sto esprimendo. D’altronde, la decisione e un pizzico di cattiveria sono ingredienti indispensabili di ogni contesa, un buon professionista non può rinunciarvi. E poi non è detto che, una volta in campo, un atleta debba necessariamente portarsi dietro tutto di se stesso. Scirea giocatore non è l’immagine di Scirea uomo».
Quattordici anni di Juventus. Una scelta di vita che lui commenta così: «Certo che avrei potuto anch’io, con l’arrivo dello svincolo, spuntare contratti faraonici, ma di squadre come questa ce n’è una sola. Ed io preferisco concludere la mia carriera alla Juventus. Senza fretta, però, ho il conforto dell’esempio di Zoff, un uomo che mi ha insegnato a non guardare indietro».
Ha vinto tutto: sette scudetti, due Coppe Italia, Supercoppa, Coppa Intercontinentale, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe, senza dimenticare il Mundial spagnolo. Ha sempre giurato di divertirsi troppo in campo, ogni partita è un avvenimento che lo affascina, aver tagliato tutti i traguardi possibili non l’ha mai accontentato.
Il 1976–77 è forse la stagione più esaltante della Juventus ultimo decennio: quella dello scudetto dei cinquantuno punti e del primo grande successo europeo, la Coppa Uefa: «Era la Juventus che dava sette o otto giocatori alla Nazionale. Una Juventus splendida, costruita da Boniperti pezzo su pezzo, da grande intenditore», ricorda. La Juventus che ha consegnato a Bearzot la Nazionale d’Argentina. «Per due volte ha capito che nel calcio non si finisce mai di imparare. È stato quando, dopo aver vinto lo scudetto con Parola, l’anno successivo, a sette giornate dalla fine, con cinque punti di vantaggio rispetto al Torino la squadra perse tre partite di seguito e consegnò il titolo ai cugini granata. E, più grande di tutte, la delusione di Atene, la Juventus più bella, quella che era giunta in finale dominando squadroni come Widzew Łódź, Aston Villa e Standard Liegi».
La Juventus gli ha dato molto, gli ha spalancato le porte della Nazionale: «Ma è facile arrivare a certi livelli, il difficile è restarci», raccomanda sempre Scirea. E non dimenticherà mai che insieme a lui, in Nazionale, cominciò Rocca: «Ecco, lui è il caso sfortunato, quello che dimostra come sia tutto così aleatorio. In quel momento era una pedina inamovibile, un esempio per me e tanti altri che si affacciavano alla maglia azzurra».
Gaetano Scirea è anche un buon marito, un buon padre, ama il cinema e pratica il tennis, sport preferito dell’estate. La famiglia è la sua oasi di pace, il rifugio di chi vive nel frastuono del mondo dello spettacolo. Ogni partita ha una sua fisionomia per cui, al termine di ogni incontro, Scirea si sente in dovere di analizzare, per conto suo, ogni azione giocata: «E mi critico e mia moglie mi critica ancora di più. Ma, devo dire, che i suoi interventi mi sono di aiuto, perché parla con serenità e la serenità ritrovata in casa, è il miglior sistema per distendersi. Ho sposato una juventina che mi ha portato una famiglia deliziosa. Ho imparato tante belle cose del Vecchio Piemonte, compreso il culto del vino buono, che ho imparato a fare da mio suocero nel Monferrato. Quando posso aiuto in cantina. Ma mi hanno detto che sono più bravo a fare il calciatore».
«Mio marito – racconta Mariella –  ha una qualità-difetto grossa come una casa, la modestia. Lui dice che, a volte, parlo come un direttore sportivo ma, secondo me, dovrebbe farsi valere di più. È testardo, poi crede di essere preciso, mentre non lo è per niente. Quante volte Gai, dopo l’allenamento, mi piombava a casa all’ora di pranzo con quattro sconosciuti. Diceva: “Mariella, questi signori hanno fatto centinaia di chilometri per venire a vedere la Juve ed ho pensato che dovevano pur mangiare qualcosa”. Ecco, questo era Gaetano Scirea fuori dal campo». Scirea rimane soprattutto un calciatore onesto e felice: «Perché ho amato questo sport fin da piccolo e sono riuscito a fare questo mestiere».
Il destino lo ha portato via il 3 settembre 1989, in una strada polacca; nulla è più atroce che morire giovani. Per Mariella e Riccardo, una scatola piena di ricordi e l’esempio di un uomo e di un padre che non potrà mai essere dimenticato.

ANGELO CAROLI
Addio, campione! Gaetano Scirea ci lascia in un mare di stupefatto dolore. Non è tornato dal suo ultimo viaggio di lavoro, una fuggitiva comparsa in Polonia per osservare i prossimi avversari della sua Juventus in Uefa. Un attimo sconvolgente e tragico, un’auto che prende fuoco dopo l’urto con un furgoncino e Gaetano si accomiata per sempre dalla moglie Mariella e dal figlio Riccardo abbandonandoli nell’incredula costernazione. E attorno ai parenti si stringono commossi e affranti il mondo dello sport e la Juventus, la seconda famiglia cui si era unito, dal 1974, con una dedizione totale.
Nel momento di piangere e celebrare il campione e l’uomo non è possibile trattenere le lacrime. Non c’entra soltanto la professione, il dovere in questo frangente ci spinge a ricordare innanzitutto l’amico. Era il ragazzo della porta accanto, al quale ci si sente istintivamente legati e al quale si da immediata fiducia, un uomo buono e accomodante, dolce e docile, onesto e umile fino al paradosso, nonostante la professione gli avesse costruito attorno una celebrità sconfinata. Non esiste un personaggio amato come lui, al punto che perfino i più accesi rivali municipali oggi lo ricordano con affettuoso rispetto.
Conosciamo Gaetano Scirea nella primavera del 1974. Militava nell’Atalanta. Era stato un incontro del dopopartita, uno scambio di poche parole, si leggeva una misura lucida in ogni sua frase. E Gaetano era come trafitto da indefinibile mestizia, poiché anche davanti all’elogio iperbolico sorrideva appena, con un garbo che aveva il sapore irrecuperabile di uno stile d’altri tempi. Gli dicemmo che aveva disputato un match stupendo. Abbassò gli occhi, fissando un punto imprecisato del pavimento e arrossì, come fanno i bambini che vivono negli incantesimi.
Come e facile cadere nella retorica quando si parla di Scirea! La verità è che con lui se n’è andato realmente il migliore, nel senso di sintesi di uomo-atleta, Aveva appeso le scarpe al famoso chiodo da un anno ed era rimasto nel cuore dei tifosi, dei critici, degli avversari. La sua sembrava un’eterna sfida al codice di comportamento. Ed era un esempio per i giovani, i campioni del futuro, i quali non soltanto ne imitavano le delizie stilistiche, ma ne ammiravano ogni tipo di approccio con la professione. Ed è anche per tale motivo che Gaetano riusciva a incutere rispetto e ammirazione in tutti.
Un episodio ci è caro ricordare e riguarda i Mondiali svoltisi in Argentina, nel 1978. Mar del Plata, la sede dei primi due turni eliminatori dell’Italia, era fustigata da raffiche di vento gelide, nonostante l’inverno australe non fosse particolarmente rigido, L’Italia aveva appena battuto la Francia e l’Ungheria, in rapida successione. Gli argentini, che in quanto al calcio hanno palato fino, gli avevano riconosciuto ampi meriti tecnici. Eravamo con Gaetano, seduti al bar dell’hotel che ospitava la comitiva azzurra, nell’ora dell’aperitivo. Gli dicemmo che era un libero che giocava con la marsina e gli chiedemmo se era d’accordo sul fatto che fosse il più forte del mondo nel ruolo. Abbassò gli occhi. Come quella volta a Bergamo, e ammise: «È vero, hai ragione».
Restammo stupefatti, ci saremmo aspettati un atteggiamento diverso, uno schermirsi discreto, come la sua natura gli aveva sempre consigliato. Poi capimmo che Gaetano, serio e onesto fino all’esasperazione, non poteva mentire a se stesso. Si era limitato a prendere atto della verità.
Una volta sola lo vedemmo irritato, nella stagione 1986-87. La Juventus giocava a Pisa e alla fine del primo tempo pareggiava dopo aver fallito due clamorose opportunità. Gaetano, seduto in tribuna a due passi da noi, si lasciò scappare, sollevando le braccia al cielo, questa frase: «Non si possono sbagliare goal così facili».
Fu questione di un attimo, poi riacquistò lo stile del gentleman e aggiunse: «Comunque, vinceremo». La sua previsione, dettata da logica e da amore, si rivelò indovinata.
I successi, tutto ciò che calcisticamente era possibile conquistare, lo incoronano atleta inimitabile. Il comportamento, sul campo e nella vita privata, lo eleggono a uomo esemplare. E oggi, in silenzio, non ci resta che piangerlo con l’animo gonfio di un dolore senza limite.

VLADIMIRO CAMINITI
Tutto passa, è un’amara storia. Ci riguarda tutti, nessuno escluso. Cera una volta Scirea. Il paese nomato Italia viveva certi momentacci e tra le pochissime realtà consolatrici la Juventus di Gaetano Scirea, impegnata a vincere in tutto il mondo. Ma non soltanto lui. Anche di Zoff e Gentile. Furino e Tardelli, Boninsegna e Bettega, Cabrini e Causio. Ma questa volta vogliamo limitare l’occhiata, fermarci sul giocatore libero di ruolo, libero in tutto, Gaetano Scirea di Cernusco sul Naviglio. Gli statistici diranno nei secoli dei secoli: chi ha mai più vinto come e quanto Scirea? Vediamo intanto il come.
Mi rivedo all’Hindu Club, in Argentina. Soldatini tenebrosi marciavano, saracinesche venivano improvvisamente abbassate in pieno giorno in Avenida Centrale nella venturosa Buenos Aires, ma gli azzurri di Enzo Bearzot null’altro vedevano che una distesa sterminata di prati verdi. Un vecchione michelangiolesco veniva presentato da Gigetto Peronace agli azzurri. Qualcuno non ne aveva mai sentito parlare. Quell’uomo antico era Luisito Monti il centromediano che cammina.
E Scirea? In quell’incipiente estate, co si piena d’incubi per le dolorose vicende politiche legate al sequestro di Moro e al suo martirio, Gaetano Scirea, classe 1953, aveva venticinque anni appena compiuti, e appariva ancora timido, irresoluto, di poche parole, fin troppo rispettoso di uomini e cose. Era fatto cosi, inseparabile dall’infrangibile portierone di tutti i primati, Dino Zoff.
Fui io ad andare all’assedio della roccaforte, tirandomi dietro i colleghi reticenti. Il dubbio era semplice: ma questa signor Scirea parla? Fino a quel momento lo si era sentito mugugnare o al massimo lo si era visto sorridere. Il calciatore vero, tanto più lombardo, anche “furlan” per questo, ha sempre prediletto la linea dei fatti a quella delle parole.
Mi ricordo sì del primo Scirea, era timido perché era orgoglioso. Riteneva fosse perfettamente superfluo parlare e respingeva al mittente tutti i dubbi e perplessità che la stampa soprattutto milanese, già preferendogli almeno altri tre liberi, nutriva sul suo conto. Fu cosi che riuscii a farlo sfogare, Scirea finalmente parla: «Non sono debole nel gioco di testa, ho il mio gioco, dipendo come tutti anch’io dalla squadra».
Avvenne al Mundial di Argentina l’esplosione tecnica di Scirea libero. Nasceva il ruolo di libero, inventato da Scirea. Quante volte l’ho scritto, vogliamo ripeterlo?
Prima di lui il libero era mezzo ruolo, per tappabuchi predestinati, per campioni alla frutta, per assi acciaccati, per nulla tenenti della fantasia. Fecero eccezione di uomini grandi come Picchi che costruirono il ruolo su se stessi, sulle proprie ossa e sul proprio cuore. Ma oramai il libero doveva entrare stabilmente nel gioco, partecipare alla manovra, non limitarsi a rompere. E Scirea faceva molto di più. Avanzava, inserendosi in ogni reparto con naturalezza; a seconda della posizione che andava prendendo sul campo era “half” o interno o attaccante. E che splendidi goal andava a segnare!
La Nazionale finì quarta ma era nato un campione nuovo, era arrivato il più grande libero del mondo. Un altro come Franz Beckenbauer il superbo, Gaetano Scirea di Cernusco sul Naviglio. Ma non superbo, timido. Di una rara timidezza, come certi cieli della sua terra, uno che non la manda mai a dire, se la tiene dentro. Ha sposato una bella ragazza. Ha ideali semplici. È un arcade, è Gaetano Scirea.
Ora può andare a vincere tutto quello che c’e da vincere. La “Nazionalsentimental” di Bearzot vive i suoi anni fulgidi. Non si sa cosa aspetti all’angolo domani, non si può mai sapere. Consapevolmente e inconsapevolmente, Bearzot il “furlan” ha messo insieme un gruppo bellissimo. E sono anni guerreggianti nel calcio, in cui anche la Juve vince tutto quello che ancora manca al suo palmares, per i posteri, per se stessa; e Scirea va a dare ripetute prove di regia retrorsa, di goal di volo belli e puntuali.
Ha inventato il ruolo. La Juve di Zoff, di Cabrini e Gentile, di Tardelli e Furino, di Brady e poi di Platini, di Boninsegna e poi di Paolo Rossi, è la sua Juve, specialmente la sua Juve, di questo giocatore araldico che conosce i tesori del silenzio, che sa applicarsi nel lavoro e rifugge da ogni atteggiamento demagogico.
Oggi è facile dire che il giocatore è cresciuto e una volta era ignorante. Sara pur vero, ma oggi è spesso arrogante, la cultura non lo ha fatto crescere. Quando era primitivo era anche creativo. Io direi che uno come Scirea fa tabula rasa di tutti i pregiudizi sul calciatore. È un desso che si impegna a fondo nella vita quotidiana per essere la stessa persona che è in campo; quando non arriva su un pallone è perché proprio non ce l’ha fatta a raggiungerlo. Il miglior discorso tattico della Juve, come della Nazionale, nasce dal suo piazzamento e dalla sua imbeccata. In Espaňa un’edizione che si fa strategia, gioca alla grande in ogni zona di campo.
È un uomo aggiunto alla manovra che sa colpire al momento giusto. E gli anni passano. E qualche filino grigio compare nelle tempie del nostro uomo.  Una volta a Cagliari lo vedo giocare male e lo scrivo. Allo Sporting, un giorno, me lo rimprovera.
Caro Scirea, hai dato al calcio il meglio di te stesso con esecuzioni esemplari di un gioco che apparteneva alle tue serene albe, ai tuoi sogni discreti.