Gli eroi in bianconero: Ernesto CASTANO

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
02.05.2022 10:36 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Ernesto CASTANO
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Per ben due volte rischiò che la sua carriera fosse finita, per ben due volte tornò in campo, nonostante i medici gli avessero detto che non avrebbe più potuto farlo. È la storia di uno straordinario uomo di calcio, Ernesto Castano, per tutti Tino, «Il terzino di maggior classe mai avuto dalla Juventus», garantisce chi ha giocato con lui.
Cominciò la sua carriera come terzino per diventare, nelle ultime stagioni, un libero di grande stile, diventando un ostacolo invalicabile per gli avversari, nonostante sembrasse reggersi precariamente sulle gambe. «Molti pensano che giochi pesante, ma è sbagliato. Gioco con vigore, ma in maniera corretta. Forse è il mio atteggiamento, il mio volto spesso imbronciato che mi fa passare per un duro». Un giornalista, dopo l’ultima lunga convalescenza e il ritorno alle partite gli chiese quale fosse il sogno più bello che avrebbe voluto veder realizzato. Lui rispose sorpreso: «Ma è la realtà di oggi; tutto quello che ho è già un magnifico sogno realizzato».
Nato a Cinisello Balsamo, paese alle porte di Milano, il padre era proprietario di un negozio di biciclette e avrebbe sognato per lui un futuro da ciclista. Invece, Tino, scelse il pallone: prima all’oratorio, poi nella squadretta locale in seconda divisione, quindi al Legnano in Serie B e retrocesso, subito dopo alla Triestina pure in Serie B.
Tino arrivò alla Juventus nel 1958: la sua prima maglia bianconera aveva lo scudetto e la prima stella, appena conquistati. Debuttò in novembre, al posto di Ferrario nella trasferta di Bari, la domenica dopo un’epica partita che la Juventus aveva perduto in casa con il Milan, con la gente assiepata ai bordi del campo: un incredibile 4-5, causato soprattutto dalle clamorose distrazioni della difesa bianconera. Giocò, in quella stagione, 16 partite sia come centromediano sia come terzino e diventò subito una delle rivelazioni di quel campionato.
Il grande Viri Rosetta, che lo seguiva da tempo, aveva capito che quel ragazzo avrebbe fatto molta strada. Lo aveva visto affrontare, deciso e scattante, il temibile Montuori, ala della Fiorentina, un tipo tutte finte, trucchi e scatti, difficilissimo da fermare. Di Tino disse, nella primavera del 1959: «In campo non scherza mai; sia contro una prima linea di grandi assi come quella viola, sia in allenamento contro i ragazzini, Castano “entra” con la stessa decisione, la stessa grinta. Di testa è un ottimo colpitore e la stessa statura lo aiuta insieme a doti di elevazione notevoli». A chi gli chiedeva se sarebbe diventato un futuro titolare nella Juventus, Rosetta rispondeva, con la cautela del grande esaminatore: «È serio, forte di carattere, vuole arrivare. Ha insomma molte possibilità di riuscire».
Sette mesi più tardi Castano era il terzino destro della Juventus, avviata a vincere l’undicesimo scudetto, e debuttava in Nazionale. Firenze, 29 novembre 1959, Italia-Ungheria. Non era più l’Aranycsapat, non c’erano più Puskás e Kocsis, Boczik e Czibor, ma i giovani che li sostituivano erano i degni successori di quella fantastica squadra. Uno dei più temibili era Fenyvesi, ala sinistra: il ventenne Castano seppe affrontarlo in una gara impeccabile per stile e freddezza. Gli attaccanti ungheresi giurarono che raramente si erano trovati di fronte un difensore tanto deciso; gli addetti ai lavori dissero che la Nazionale italiana aveva scoperto un terzino di classe completa, gran battitore, acrobata, incontrista di brusca fermezza.
Castano giocò altre 7 partite di campionato e alla fine di gennaio dovette farsi togliere il primo menisco al ginocchio destro; i medici gli dissero che difficilmente avrebbe potuto continuare a giocare. Undici mesi dopo, a Lecco, scese di nuovo in campo.
Giocò un’altra serie di partite, ancora una rincorsa allo scudetto (il dodicesimo), poi, un giorno, quella dolorosa fitta che oramai conosceva bene: di nuovo in clinica, stavolta per operare un menisco, quello esterno, del ginocchio sinistro.
Era il 1961, un anno che Castano non avrebbe dimenticato facilmente; fece appena in tempo a tornare in campo e si trovò nuovamente in sala operatoria, ancora il ginocchio sinistro per togliere il menisco che restava. L’intervento, purtroppo, non riuscì bene e si rese necessaria un’altra operazione in Francia. Questa volta era finita davvero: «Il suo ginocchio non potrà guarire completamente, deve rassegnarsi – gli dissero i medici – l’arto non potrebbe più reggere allo sforzo di una gara».
«Sembrò che il mondo fosse diventato buio», disse. Aveva solamente 22 anni, ma ricominciò ad allenarsi, nonostante dolori lancinanti, senza mai arrendersi: corse, ginnastica, palleggi, l’aiuto materno della società, le prime partite non impegnative.
Il libero con le ginocchia di vetro tornò in campionato, stavolta per giocare interi campionati. Si erigeva in mezzo all’area, in precario equilibrio, ma usciva autoritario dalle mischie, fermava gli avversari, spediva splendidi palloni con nitidi allunghi di 40 metri ai compagni dell’attacco. Era seguito dall’ammirazione e dall’incredulità per quelle due fragili ginocchia che sembravano mandare sinistri scricchiolii a ogni improvviso e brusco scatto.
Fece in tempo a vincere un altro scudetto, quello di Heriberto, nel campionato 1966-67: lui e Salvadore, al centro della difesa, erano l’anima di una squadra che non si arrendeva mai, proprio come il suo capitano: Tino Castano.
Rientrò anche in Nazionale, nove anni dopo quella domenica fiorentina contro gli ungheresi. Fu a Napoli, contro la Bulgaria: in porta aveva lasciato Buffon e ora trovava un debuttante che sarebbe entrato nella leggenda: Dino Zoff. Giocò ancora 5 partite, diventando anche Campione d’Europa.
La prima domenica di aprile del 1970, l’anno dello scudetto del Cagliari, a Torino contro il Brescia, giocò l’ultima partita in maglia bianconera; aveva 31 anni.
Aveva cominciato tra Emoli e Fuin, chiudeva tra Morini e Cuccureddu, ma dietro questi dati storico statistici c’era una stupenda lezione di vita, una straordinaria rivincita sul destino. 

ALBERTO REFRIGERI, “HURRÀ JUVENTUS” DEL GIUGNO 1969
Se al professor Nobel fosse venuto in mente di istituire un premio anche per la sfortuna, crediamo che Tino Castano sarebbe fra i più autorevoli candidati: infatti, nella sua carriera calcistica, vale a dire in una decina di anni, ha subito ben tre dolorose asportazioni di altrettanti menischi, e tutti sanno che togliere il menisco a un giocatore è come levargli il pane. Per cui il libero bianconero e della Nazionale è costretto a giocare con un solo, autentico menisco d’oro. Nonostante tutte queste passate avversità, Tino non si è mai dato per vinto, ha lottato a denti stretti per superare la cattiva sorte e, ancor oggi, a trent’anni compiuti, è un grosso giocatore, esempio per tutti i compagni. Farà certamente piacere a tutti i tifosi juventini conoscere qualcosa di più del nostro, come giocatore e come uomo.
Tino, tutti dicono che sei vecchio, tu cosa rispondi? «Come carriera magari, come atleta certamente no; adesso, e lo dico senza falsa modestia, mi sento fisicamente fresco come un ragazzino di vent’anni; quando sarò veramente da buttare sarò io il primo a dirlo».
In tutti questi anni cosa hai dato alla Juve? «Nulla di più di tanti altri giocatori; oltre a questi tre menischi».
E la Juve cosa ha dato a te? «Moltissimo; i dirigenti hanno sempre avuto fiducia in me anche nei momenti brutti, anche quando sembrava che dovessi dare addio al calcio; mi hanno permesso di riprendermi dagli infortuni e tornare integro ai campi di gioco; d’altra parte anche la Società mi deve qualcosa perché non ha perduto il suo capitale; diciamo che è stato, e lo è tuttora, un felice connubio».
Quando smetterai di giocare, ti piacerebbe fare l’allenatore? «Per piacermi sì, certo che in Italia è una professione molto difficile; penso comunque di avere tanta pazienza per insegnare; altre doti dovrò dimostrarle; adesso comunque, oltre che giocare, ho una ditta, in società con un amico, di recuperi metallici, che magari mi permetterà, fra qualche anno, di intraprendere la carriera del trainer senza trascurare gli affari».
Cosa proverai quando dovrai attaccare le scarpe al chiodo? «Spero che quel giorno sia il più lontano possibile; certo sarà un momento di infinita tristezza, quasi come perdere una persona amata; per ora non voglio nemmeno pensarci».
Anni fa hai subito tre interventi difficilissimi al ginocchio e temevi addirittura di non poter più giocare: chi ti ha aiutato maggiormente con parole e con fatti? «I miei familiari, la mia fidanzata, che adesso è mia moglie, e tutta la Juventus, dall’allora presidente Umberto Agnelli, a Giordanetti, al socio bianconero e amico Peyrani».
Quando entri sull’avversario non pensi qualche volta alle tue ginocchia scricchiolanti? «Se ci pensassi darei subito le dimissioni».
Cosa si prova a calciare, dribblare, scattare, con un menisco solo anziché quattro? «Beh, una certa differenza c’è; con le ginocchia completamente a posto puoi fare tutti i movimenti che vuoi; invece io, per ottenere ciò, ho dovuto sottopormi a un attento studio: adesso comunque, proprio grazie a questi sacrifici, il mio rendimento è tale e quale quello ante operazioni».
Se, naturalmente senza volerlo, ti capitasse di rompere la gamba a un avversario, cosa proveresti? «Non mi è mai capitato perché sono abituato a entrare sulla palla, magari duro ma, ripeto, sempre sulla palla e mai, assolutamente, con l’intenzione di fare male: anche perché ho tanto sofferto e non vorrei che un altro provasse ciò che ho provato io».
Quale avversario ricordi fra i più leali e simpatici? «Moschino e De Sisti».
E fra quelli più cattivi? «Uno solo e non me lo scorderò per tutta la vita, Cucchiaroni: è quello che mi ha rovinato la gamba».
Come si è svolto l’incidente? «Si giocava Juventus-Sampdoria; a un certo momento ho voltato le spalle al suddetto giocatore per passare la palla indietro a Cervato e quello mi ha tirato una pedata al ginocchio; negli spogliatoi mi ha poi chiesto scusa, ma intanto il male era fatto, e che male!»
Potessi tornare indietro c’è qualcosa che non rifaresti? «Girare le spalle a Cucchiaroni!»
Tino, quale è secondo te l’arbitro, più bravo e simpatico? «Sbardella: è preparato, severissimo, ma non ti fa sentire il comando; chiacchiera e discute senza mai salire in cattedra; in altre parole si fa obbedire senza usare il bastone, ma soltanto direi con il sorriso e la persuasione».
È vero che sei un musone? «Non sono chiacchierone, ecco; forse do l’impressione, a chi non mi conosce a fondo, di essere magari antipatico, ma non è assolutamente vero».
I giornalisti, lo sappiamo per esperienza personale, quando hanno da farti un’intervista o chiederti un parere su questa cosa o su quell’altra, ti possono telefonare a casa e tu ogni volta rispondi, oltre che con competenza, con cortesia. «Lo ritengo una cosa doverosa; siamo entrambi, in diversi campi, dei professionisti; mi chiedete un piccolo aiuto ed io ve lo do, ben volentieri».
Nelle tue interviste sei sempre sincero? «Quasi sempre; a volte è più opportuno non dire la verità, attenuarla, specie se ciò che si dovrebbe dire farebbe del male alla Società oppure a qualche compagno».
Sei mai stato squalificato? «Sì, alcuni anni fa, quando allenatore era Monzeglio. Si giocava Juventus-Torino ed io scesi in campo particolarmente nervoso; come del resto un po’ tutta la squadra, in quel periodo; fatto sta che persi il controllo dei nervi e mi feci sbattere fuori».
Aveva ragione l’arbitro di espellerti? «Mille e una».
Sappiamo che tua mamma e tua moglie, ogni volta che giochi allo stadio, ti vengono a vedere; non hanno paura? «Nei primi tempi sì; adesso si sono abituate al gioco».
Se fai una brutta partita, a casa ti criticano? «Critiche feroci, ti assicuro! Peccato che di calcio capiscano poco!»
C’è qualcosa delle regole del calcio che vorresti cambiare, sul fuorigioco, oppure allargare le porte per vedere di segnare più goal? «Io lascerei tutto come sta; se abolissero il fuorigioco troverebbero subito una contro tattica: in quanto alle porte cosa vuoi allargare? Se nessuno tira in rete come si fa adesso in Italia, a cosa serve?»
Tino, cosa pensi dei tifosi bianconeri? «A mio parere sono un po’ troppo freddi; se ci incoraggiassero sempre come lo scorso anno in Coppa dei Campioni, le cose andrebbero certamente meglio».
Sei soddisfatto della tua carriera? «Al cento per cento; dieci anni fa non pensavo di arrivare a tanto».
Sulla guida telefonica non è segnato il tuo nome, come mai? «È sotto quello di mia moglie; prima mi capitava che nel cuore della notte un tifoso mi svegliasse per chiedermi cosa pensavo di Mazzola, oppure mi pregava di vincere la partita perché lui aveva scommesso una cena; cose di questo genere: di giorno tutto va bene, ma la notte è sacra».
Come si chiama la tua bambina? «Stefania, ha tre anni».
Ne farai una calciatrice? «Assolutamente no; se come mi auguro avrò un maschio si, la femmina lasciamola a lavori e a svaghi più delicati».
Tu vuoi molto bene ai bambini; sappiamo che vai spesso a visitare istituti e collegi che ospitano piccoli infelici, spastici, orfani, poliomielitici. «Costa così poco donare un’ora di felicità a tanti esseri disgraziati; forse è un modo come un altro per ringraziare il buon Dio della sua protezione nei miei riguardi. Vuoi sapere una cosa? Quando esco da quei luoghi sono più contento io di loro».