Gli eroi in bianconero: Alexander MANNINGER

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
08.06.2023 10:17 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Alexander MANNINGER
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Approda alla Juventus nell’estate del 2008 per la modica cifra di 680.000 euro. È una stagione fortunata per Alex: infatti, a causa dell’infortunio di Buffon, scende in campo per ben ventitré volte. Manninger è un ottimo portiere, molto sicuro nella presa e dal buon piazzamento. Difetta un pochino nelle uscite, soprattutto quelle alte. Comunque sia, la porta bianconera è ben protetta dall’austriaco, che si mette in evidenza, soprattutto, nelle due fantastiche vittorie contro il Real Madrid!
Nell’agosto del 2009 dice addio alla Nazionale austriaca, dopo aver totalizzato trentatré presenze: «Sì, ho deciso di lasciare la Nazionale, ho avvertito intorno a me poca considerazione e non mi sentivo più parte del progetto, non c’era più la voglia matta di andarci come nei primi anni di carriera. Ora mi dedicherò solo alla Juventus, questa nuova squadra mi piace da matti, sono arrivati giocatori molto forti e ci sarà spazio per tutti. Una cosa che mi piace è che la Juve prende i giocatori anche in base al carattere in modo che si faccia quadrato e che non sia un problema fare panchina. Il mio rapporto con Buffon? Parliamo molto e sa che, quando ha qualche fastidio, può stare tranquillo e contare su di me, l’anno scorso l’ha fatto qualche volta».
È positiva anche la stagione successiva: Manninger scende in campo per tredici volte, nonostante un infortunio che costringe il mister bianconero Zaccheroni a schierare tra i pali Chimenti, terzo portiere. Sono le ultime presenze in bianconero di Alex. Nell’estate del 2010, infatti, approda a Torino Marco Storari ed è quest’ultimo a prendere il posto di Buffon, spesso alle prese con infortuni. Manninger è schierato da Delneri solamente nelle partite di Europa League: appena cinque saranno le presenze del portierone austriaco.
La stagione successiva è nuovamente relegato al ruolo di terzo portiere e non riuscirà mai a scendere in campo, nonostante l’apprezzamento del nuovo allenatore bianconero Antonio Conte. Il 30 giugno 2012, scaduto il contratto con la società bianconera, lascia Torino e la Juventus.
Poche presenze, in definitiva, per Alex. Ma sufficienti per farsi voler bene dai supporter juventini.

NICOLA CALZARETTA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 2009
C’è un bel sole a Vinovo. L’allenamento pomeridiano è finito. Fuori dagli spogliatoi alcuni tifosi sono pronti con macchine fotografiche, telefonini e videocamere a fermare il tempo bianconero per poi metterlo in cornice nel salotto buono di casa. Colpiscono gli occhi felici di un bambino con il pallone in mano. Nell’altra ha un pennarellone blu già stappato per catturare gli autografi dei suoi idoli. Si sogna là fuori, mentre escono alla spicciolata gli eroi juventini. Ecco Antonio Chimenti seguito da Legrottaglie. Quindi Mellberg che si stropiccia il suo barbone demodé, in perfetto stile anni Settanta. Poi spunta il ciuffo dorato di Alexander Manninger. Firma di blu il pallone del bimbo, stringe mani, sorride. Poi si blocca per una foto con due ragazzini. I venti e passa centimetri di differenza tra il portiere biondo e i suoi piccoli fans, sono annullati dal gentile piegamento in avanti di Alex. La sua facciona con le gote color dell’arancia, in mezzo a quella dei due tifosi in palese stato di estasi. Il quadro è perfetto. Un paio di scatti, altri autografi e l’abbraccio con la gente bianconera si scioglie al grido “Forza Juve”. E il segnale del via libera per lui. Che si incammina verso di me. Lo aspetto con penna e taccuino, come si conviene. Ci incrociamo per la prima volta. La stretta di mano è forte e vigorosa. Un bell’inizio. Poi lo osservo. Alto è alto. Lo facevo più massiccio, chissà perché, forse perché è nato a Salisburgo. Le labbra sottili sono appena dischiuse. All’improvviso, mi anticipa con un’uscita bassa a rubarmi il pallone dai piedi: «Soffro». Una sola parola, dal significato inequivocabile. Lo dice forte e chiaro nel suo italiano squadrato. Poi, scorgendo nel mio viso un punto di domanda grande così, specifica il concetto. «Sto male a non giocare».
Mi sento quasi sollevato. Credevo si riferisse a qualche problema fisico. Poi a pensarci bene, è quasi peggio. Me ne accorgo quando gli dico (chiedo perdono per I’auto citazione) che anni fa ho scritto un libro sui dodicesimi. «Ma io non sono un secondo portiere». I toni sono pacati e i modi gentili, sia chiaro. Alex sa di essere l’altra faccia di Buffon. E sta alle regole. «Tutto tranquillo. Cici (lo chiama così, alla tedesca, nda) è un ragazzo splendido, con lui il rapporto è stato fin dal primo giorno perfetto. Un fuoriclasse, in campo e nello spogliatoio. Quando è stato il mio turno, mi ha sempre incoraggiato e incitato. Con Antonio Chimenti, poi, formiamo un bel terzetto di portieri, umile e unito. Non mi era mai capitato di vivere una situazione del genere nelle altre squadre. E sono molto contento».
Però il titolare è Buffon. «E come potrebbe essere il contrario? Lui è Campione del Mondo ed è il numero uno più forte in circolazione».
A te, invece, è toccato il numero tredici. «Una mia scelta. Premesso che l’uno e il dodici erano già occupati, il primo da Buffon, l’altro da Chimenti, ho preso il tredici, che è poi il numero che ho avuto nell’Arsenal. Ma ripeto: sapevo cosa mi sarebbe aspettato venendo alla Juve. Ero preparato».
A proposito, ci puoi raccontare i retroscena del tuo trasferimento in bianconero. A un certo punto sembrava che potesse saltare. «È molto semplice. Il Salisburgo ha cercato di fare il furbo (testuale) quando ha saputo che c’era anche la Juventus tra le società interessate a me. Non sono stati corretti. Ma io volevo assolutamente la Juve. So che c’erano anche altre squadre, ma il mio desiderio era quello di arrivare a Torino, perché volevo giocare in una grande squadra e vincere qualcosa».
Scelta ottima, anche se sapevi che non saresti stato titolare. Quali erano i tuoi traguardi personali a inizio stagione? «Il mio obiettivo in estate era quello di disputare comunque alcune partite con la Juve. Discorso solito: tanti impegni, molte gare in calendario, un po’ di spazio per me ci sarà sicuramente, ho pensato».
Scusa Alex, in quale lingua pensi di solito? (gli scappa un mezzo sorriso) «In tedesco, quasi sempre. Ma mi capita sempre più spesso di pensare in italiano. Dopo sei anni non è male. Al di là della lingua, la realtà dei fatti ha superato i pensieri e le speranze iniziali Questo sì. L’infortunio di Gigi mi ha dato la possibilità di giocare con continuità. Anche per questo, adesso, rimanere in panchina è più difficile».
Ti dicono niente i nomi di Piloni, Alessandrelli e Bodini? (Ci pensa un po’) «Sono stati portieri, vero?»
Sì, e poi? «Non so».
Te lo dico io: sono stati riserve di Dino Zoff alla Juve: zero presenze in undici anni. Potresti chiedere qualche consiglio a loro su come si sopravvive in panchina. «Ah no (risponde divertito)! Io non mi sento una riserva. Non mi sono mai visto in questi panni. Piuttosto sono un altro titolare. E ho voglia di giocare».
Per questo motivo hai deciso di lasciare l’Arsenal dopo quattro stagioni nel 2001? «Seaman non smetteva mai ed io non potevo perdere altro tempo. Avevo già ventiquattro anni».
A proposito di Seaman: aveva una capigliatura inguardabile. (Sorride). «Era la moglie che dettava legge in tema di look. Lui si adeguava».
Torniamo all’Inghilterra. Da vice Seaman ti sei tolto molte soddisfazioni, comunque. «Diciamo subito che con l’Arsenal ho disputato una settantina di partite in quattro stagioni, non proprio un ruolino di marcia da portiere di riserva. Ho vinto il campionato e la Coppa d’Inghilterra nel 1998 da protagonista. Sono stato il primo austriaco a giocare in Premier League. Ci sono arrivato che avevo vent’anni. Vivevo da solo. L’esperienza inglese è stata fondamentale per la mia crescita».
Perché? «Perché ho incontrato Arsène Wenger, un vero insegnante, un professore più che un allenatore. Mi ha formato come giocatore e come uomo. E poi perché l’Inghilterra mi ha aperto le porte dell’Europa, è stata una vetrina fantastica. In Austria il livello del calcio non è elevato. Io ho sempre avuto grandi ambizioni. E rimanendo a Salisburgo non avrei avuto molte chance. I compagni di un tempo che sono rimasti a casa, infatti, alla fine hanno dovuto cambiare mestiere. Io, invece, ho realizzato i miei sogni di ragazzo».
E quali erano i tuoi sogni? «Riuscire nello sport, sicuro. Anche se fino all’età dei tredici anni, ancora ero diviso tra sci e pallone. Poi ho scelto il calcio, spinto anche dagli amici».
Scelta azzeccata, come quella di stare in porta. «E pensare che non sono nato portiere».
Anche tu come Buffon hai un passato da centrocampista? «Forse più trequartista di Gigi. Io segnavo anche. Guarda che non ero male. In porta ci sono finito per combinazione. Ero ancora un ragazzino, eravamo senza il nostro portiere. “Vai tu Alex che hai coraggio”, mi dissero i miei compagni. Sono andato, mi è piaciuto e non sono più uscito. Anzi no, mi è capitato di fare qualche goal partendo palla al piede dalla mia area, quando ero ancora nelle squadre giovanili del Salisburgo».
Poi sei cresciuto e ti sei dato una calmata. «Da quel lato sì. Ma in generale quello del carattere è stato un po’ il mio punto debole sai?»
Perché? «Perché vivevo la partita con troppa tensione, troppa irrequietezza. Mi arrabbiavo molto, soprattutto con me stesso. Se commettevo un errore, mi arrabbiavo tantissimo, e questo non mi dava la giusta tranquillità per proseguire la gara. Ma adesso va molto meglio».
Che cura hai seguito? «La miglior cura è giocare, prendere fiducia, acquisire il ritmo della partita. Fuori dal campo, invece, è utile cercare di rilassarsi, staccare la spina e ricaricare le pile. Io ascolto musica, mi piacciono gli U2, Bon Jovi, Ligabue. Da ragazzo ascoltavo molto Eros Ramazzotti. Poi ci sono le passioni che ti aiutano a distendere i nervi».
Le tue quali sono? «Da un po’ di tempo vado matto per il golf, ma lo devo dire a bassa voce, sennò il mister si arrabbia, perché ha paura che mi faccia male alla schiena. Prima del golf viene comunque la pesca, il mio hobby preferito. Vado a pesca fin da quando ero bambino. Da piccolo andavo con mio padre, poi sempre più spesso da solo. Mi distende moltissimo, ritrovo la forza».
E quando il pesce abbocca? «Lo ributto in acqua, quasi sempre. Così, mi dico, lo riprenderò tra un paio d’anni, quando sarà diventato più grande. Comunque è capitato anche di aver pescato una bella trota e di averla mangiata».
Cucinata da te? «No, per carità. Ai fornelli non sono un granché. A Torino, poi, non ho grossi aiuti in cucina. Vivo da solo. La mia fidanzata abita a Vienna».
Meglio non abboccare allora a un tuo invito a cena. «Al massimo ti posso portare in qualche ristorante. Magari ci facciamo una bella fiorentina».
Vedo che la Toscana ti è rimasta nel cuore. «Ci ho passato diversi anni, tra Firenze e Siena. In verità io ho sempre amato l’Italia. Ci venivo in vacanza da piccolo con mia madre (piccola pausa, quasi a riprendere il fiato). Ti devo confessare una cosa: in verità il mio sogno è sempre stato quello di giocare in Italia. Ricordo ancora l’album delle figurine dei Mondiali del 1990. È da quel momento che ho iniziato a pensare al campionato italiano come meta da raggiungere. Più ancora di quello inglese o di quello tedesco. La Serie A. Ci dovevo arrivare prima o poi».
Lo pensavi anche il 14 settembre 1999? «So a cosa ti riferisci: è il giorno in cui ho disputato la mia prima partita in Italia. Fiorentina-Arsenal, gara inaugurale del girone di Champions. Finì 0-0, Toldo parò un rigore a Kanu ed io riuscii a non prendere goal nonostante di là ci fossero Rui Costa, Batistuta e Mijatović. Un bel ricordo».
Direi soprattutto un bel modo di presentarsi a quelli che sarebbero stati i tuoi futuri tifosi. «Il calcio è strano e misterioso. E per questo anche affascinante. Giocare al Franchi fu una grande emozione per me. Ma mai avrei pensato che di lì a due anni sarei finito proprio a Firenze. Parai bene, giocai senza timori, fu anche per merito mio che tornammo a Londra con un punto. Probabilmente a qualche dirigente è rimasta impressa la mia partita se nel giro di un paio di stagioni sono stato ingaggiato proprio dalla società viola».
“2001, odissea nello spazio”. Come in un film, ecco che il tuo desiderio diventa realtà. Italia eccomi. «Una bella soddisfazione, davvero. Arrivare in Italia, alla Fiorentina, con la garanzia del posto, dopo i campionati all’Arsenal da titolare aggiunto. Ero veramente felice. Finalmente la grande occasione di dimostrare il mio valore nel campionato italiano. Ero pronto, ma avevo ancora molte cose da imparare. Specie dal punto di vista tecnico».
Cioè? «Adesso lo posso dire. Solo in Italia ho lavorato seriamente e professionalmente con il preparatore specifico. In Austria ho avuto lo jugoslavo Marinko Koljanin, un ex portiere che se non altro mi ha dato i primi consigli. In Inghilterra, invece, ho lavorato molto poco sulla tecnica. A Firenze ho fatto il salto di qualità grazie a Pietro Battara. Mi ha insegnato come si mettono le mani per la presa, con quale piede si spinge, come ci si tuffa».
Anche il tuffo è tra le materie obbligatorie? «Ti spiego: tuffarsi viene naturale, questo sì. È l’istinto che ti fa volare. O ce l’hai o non ce l’hai. Però la tecnica aiuta a sapersi buttare, a saper cadere a terra senza farsi male, a organizzare mentalmente il volo. Battara è stato il primo vero maestro, poi ho avuto anche Di Fusco e Filippi al Siena».
E adesso c’è Pellizzaro. «Ma lo sai che quando l’ho visto la prima volta ho creduto che fosse il fratello di Battara? Incredibile. Poi ho saputo che hanno giocato un paio di anni insieme alla Sampdoria negli anni Settanta».
Se per questo è stato compagno anche di Claudio Ranieri al Catanzaro. «So anche questo. Con il mister il rapporto è decisamente positivo. Lui sa cosa posso dare alla squadra, così come io so quanto sia grande la fiducia che lui ripone in me. Ma qui alla Juve è tutto realmente fantastico. Era quello che volevo. Giocare in una squadra che “deve vincere” ha tutto un altro sapore rispetto a quella che “non deve perdere”».
Ti riferisci al Siena? «Sì, ma bada bene, io a Siena sono rinato e dovrò sempre ringraziare chi mi ha offerto la possibilità di giocare con continuità. Il Siena mi ha dato tantissimo. In fondo se sono alla Juve, una parte di merito va proprio alle stagioni disputate con la squadra toscana dove credo di aver toccato un ottimo livello di rendimento, specie negli ultimi due campionati».
Con la ciliegina sulla torta del rigore parato a Materazzi sul finire della scorsa stagione. «Una grandissima soddisfazione. Oggi posso dire che quella è stata la mia prima parata da juventino (sorride)».
Alla quale ne sono seguite altre nel tuo interregno bianconero. Qual è la più difficile che hai compiuto? «Quella su Matri, a Cagliari, alla mia prima partita con la Juve. Era una fase delicata della gara, faceva caldo, io ero entrato nel secondo tempo. Una situazione da gestire con la massima concentrazione. È andata bene».
Sbaglio a dire che quella parata ha convinto i tifosi che Manninger era veramente da Juve? «Ho avvertito anch’io questa sensazione. In fondo il popolo bianconero non mi aveva ancora visto in azione in partite vere da tre punti. Ha capito che a fianco di Buffon cera un portiere affidabile».
A proposito di doti e qualità: cosa ruberesti a Gigi? «Da lui prenderei sicuramente la tranquillità, quel suo essere calmo, sempre, in ogni circostanza. Una serenità che influenza positivamente tutta la squadra. È una dote fondamentale».
E Buffon cosa potrebbe prendere da te? (sgrana gli occhi). «Niente... non saprei... forse... un’esperienza all’estero. Ecco, credo che un paio di stagioni in Inghilterra possano essere per lui una buona esperienza. Va bene come risposta?»
Va bene, mettiamola così. Torniamo al campo. Al Sant’Elia, dunque, la parata salva risultato. Con il Real Madrid in Champions le sensazioni più intense, immagino. «Senza dubbio. La doppia sfida con il Real è stato il momento più alto vissuto fin qui alla Juventus. E da numero uno. La notte del Bernabéu è stata magnifica, ma nella mia personale classifica delle emozioni metto anche il rigore parato a Lavezzi nei quarti di finale di Coppa Italia che ci ha poi consentito di battere il Napoli e di andare in semifinale. Una grande gioia».
Quella sera eri vestito tutto di nero. Scaramanzia o semplice coincidenza? «Non ho un colore preferito. Ho giocato spesso con la maglia gialla. Diciamo che se devo scegliere preferisco maglia nera, pantaloncini neri e calzettoni bianchi. Sono o no il portiere della Juve?»
Rimaniamo in tema di divise. Sei uno dei pochi che non segue la moda della maglietta a maniche corte. Perché? «Sono abituato da sempre a giocare così. Per comodità, per maggiore protezione dei gomiti, per il freddo. In realtà, c’è anche un altro motivo. Forse quello più importante».
Lo puoi dire? «Gioco con le maniche lunghe perché così posso arrotolarle un po’ sopra i polsi. È un gesto che faccio spesso e che mi ricorda i miei anni giovanili passati in falegnameria dove, prima di mettermi a lavoro, mi rimboccavo le maniche. Era il segnale che cominciava una nuova giornata impegnativa. E che c’era da sudare e durare fatica. Lo ripeto volentieri. Per tenere sempre i piedi per terra anche adesso che per mestiere volo».