Il pallone racconta: MEAZZA E PIOLA ALLA JUVENTUS (parte prima)

Misteri, scandali, polemiche, gioie e dolori. Tutti gli ingredienti che fanno del calcio il "gioco più bello del mondo
19.05.2010 09:38 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Il pallone racconta: MEAZZA E PIOLA ALLA JUVENTUS (parte prima)

Alla Juventus è capitato anche di far indossare la maglia bianconera a due monumenti del calcio che storicamente erano l’emblema di club rivali, Giuseppe Meazza e Silvio Piola. Uno era l’uomo dell’Ambrosiana, l’avversaria più accanita negli anni dei cinque scudetti; l’altro, prima di finire alla Lazio, dove sarebbe stato capace di infilare nella porta juventina anche quattro goals in una partita, aveva rappresentato l’ultima leggenda della gloriosa Pro Vercelli, caposaldo di un calcio provinciale e romantico fatto di aspre rivalse indigene sulla vicina Torino («Macchè Gualino, macché Agnelli, la Pro Vercelli trionferà» cantava l’ingenuo tifo di allora e mostrava striscioni con «Dove passa la Pro non passa la Juve» oppure «Il leone sbrana la zebra»: altro che ultras, fosse, brigate ed “hoolingans” di oggi). Arrivarono, Meazza e Piola, in momenti molto particolari: Meazza mentre si giocava un campionato che, tra bollettini di guerra ed allarmi aerei, non si sapeva se sarebbe mai arrivato alla fine, Piola quando il calcio ricominciò, dopo lo sfacelo della guerra. Il “Pepp” di Porta Romana (lì era nato, nel cuore della Milano popolare) aveva ormai trentadue anni, anche se lo chiamavano ancora “balilla”. Erano molto lontani i tempi di una canzoncina molto in voga: «La donzelletta vien dalla campagna, leggendo la Gazzetta dello Sport e come ogni ragazza, lei va pazza per Meazza, che fa reti a tempo di fox-trot.» Di goals ne aveva segnati quasi duecentocinquanta per i colori dell’Inter, anzi dell’Ambrosiana come si diceva allora, e l’ultimo in nazionale (quello epico, su rigore, contro il Brasile, tenendosi i calzoncini perché s’era rotto l’elastico) risaliva ad oltre quattro anni prima. La sua lunga storia, che faceva parte del costume italiano anni trenta, aveva subito brusche svolte: prima il “piede gelato”, poi l’incredibile passaggio sulla sponda rossonera, al Milan, anzi al Milano come si diceva allora, dove aveva disputato un campionato e mezzo.
Firmò il contratto per la Juventus sdraiandosi, per scrivere meglio, sull’erba del “Comunale” torinese dopo aver interrotto l’allenamento, già in maglia bianconera. Il suo debutto (18 ottobre 1942) avvenne in un derby. II Torino era all’alba della sua memorabile stagione e schierava già il mitico attacco, da Menti a Ferraris.

Si era alla terza giornata, nelle prime due la Juventus aveva solo pareggiato. Meazza scese in campo con il numero otto, aveva intorno vecchi compagni del mondiale vinto a Parigi (Foni e Locatelli), Carletto Parola, un centravanti albanese (Lushta), il più giovane dei Varglien, l’altra mezzala era Sentimenti III, fratello del portiere “Cochi”. Non fu un esordio molto felice. Meazza era poco allenato, sembrava addirittura ingrassato, lento nei movimenti. Così quando entrò in area a tu per tu con il portiere Cavalli, mentre la folla si aspettava uno dei suoi celebri “goal ad invito”, non ebbe la necessaria rapidità di movimenti e finì per perdere ingloriosamente il pallone. La partita fu poi vinta dal Torino cinque a due.
Le cose andarono meglio in seguito, Meazza si spostò al centro dell’attacco e regalò alla Juventus dieci goals: ne segnò due anche alla sua Ambrosiana e quello che fece all’Arena fu quasi uno sberleffo alla nostalgia. Disputò ventisette partite su ventotto: l’addio fu un disastro collettivo, la Juventus, terza in classifica, fu travolta a Torino dal Vicenza che doveva salvarsi. Un incredibile due a sei al quale non badò nessuno: era l’ultima domenica di calcio e la guerra stava per cancellare il campionato, insieme a tante altre cose della vita di tutti i giorni.