Gli eroi in bianconero: Pietro ANASTASI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
07.04.2023 10:16 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Pietro ANASTASI
TuttoJuve.com

Dissero subito: «Come calciatore è un paradosso». Avevano ragione: la lacuna più evidente finiva per essere la sua arma segreta; risolveva i problemi creati dal palleggio incerto con uno scatto e una velocità impressionante. Lo stop appariva sempre o quasi, approssimativo, ma lui riusciva a raggiungere la palla prima degli avversari. È stato un centravanti importante sia per la Juventus, che per la Nazionale e, a lungo, ha rappresentato un modello per i giovani del più profondo Sud alla ricerca di quell’affermazione sportiva che, ogni tanto, diventa vero riscatto sociale.
Nasce a Catania il 7 aprile 1948, la famiglia non è ricca: «Sette persone in due stanze», ha raccontato un giorno. Come per altri ragazzi, il suo primo problema fu la scuola, poiché non gli piaceva. Un giorno in classe e un altro in piazza con una palla fra i piedi spesso nudi per non rovinare le scarpe.
Poi il calcio diventò la sua ragione di vita. La carriera fu rapida e, naturalmente, il successo arrivò presto. Due anni nella Massiminiana (girone F della Serie D) e trasferimento al Varese nel 1966.
Due stagioni in Lombardia e poi la Juventus che vinse la serrata concorrenza dell’Inter: fu pagato un prezzo record, 660 milioni.
È il 1968, un anno magico per il calcio italiano. In Italia si disputa il Campionato d’Europa e, per la Nazionale è l’occasione per tornare fra le grandi potenze del calcio.
La sera di sabato 8 giugno, allo Stadio Olimpico, l’Italia è in finale contro la Jugoslavia. Anastasi esordisce in azzurro, ma non si distingue in una squadra che non soddisfa.
Il pareggio 1-1 è un premio immeritato per i nostri colori ma due giorni più tardi, nella finale bis, c’è una prova d’orgoglio degli italiani. È il trionfo: goal di Riva e, bellissima, in mezza rovesciata, la replica di Pietruzzo.
Molto intuito, nel gioco di questo calciatore, molto genio e, purtroppo, anche molta sregolatezza: sarà il suo limite: «Le mie qualità migliori erano lo scatto, la velocità e l’altruismo. E seppur scendessi in campo, anche in Nazionale, con la maglia numero nove, spesso mi posizionavo sulla sinistra, per effettuare dei cross a favore del compagno di reparto. Insomma, ero un uomo d’area che sapeva anche manovrare».
Due anni più tardi, è atteso con curiosità al Mundial messicano. È in gran forma, ma uno stupido incidente lo costringe al forfait poche ore prima della partenza. Lo sostituisce Roberto Boninsegna che, più tardi, prenderà il suo posto anche nella Juventus.
Partecipa anche al Mondiale del 1974 ma, a quel punto, la carriera di Pietro è già verso l’epilogo. In Nazionale giocherà 25 gare e in totale realizzerà 8 volte.
Quando, per la prima volta, arriva in Galleria San Federico, sede juventina, è senza cravatta, e il presidente di allora, Vittore Catella, lo avverte: «Quando si presenta in sede sarà bene, d’ora in avanti, che si vesta con regolare camicia e cravatta».
Ma il contratto è buono e la cifra concordata anche. L’allenatore è Heriberto Herrera, il Ginnasiarca, uno che non cerca e non concede simpatia.
Ad Anastasi, che in allenamento non riesce a interpretare uno dei tanti schemi, una volta urla, davanti a compagni, giornalisti e tifosi: «Tonto, stia a guardare, perché lei non capisce niente!».
È un rapporto, questo con la Juventus, che non sarà mai sereno.
Quando torna a segnare con una certa continuità, allo stadio compare uno striscione: “Anastasi, il Pelé bianco”.
Le cifre: 302 partite e 129 goal, il 1971-72 è l’anno del suo primo scudetto, subito bissato l’anno seguente. Il terzo tricolore lo conquista nel 1974-75, sempre in bianconero, naturalmente.
Lascia la Juventus per l’Inter, nel 1976-77, poi l’Ascoli e l’addio ai campi di calcio con un bilancio brillante.
Anni dopo disse: «Andai via, perché ebbi un litigio con Parola, dopo una trasferta in Olanda, ma con la società sono sempre rimasto in ottimi rapporti. Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino».

VLADIMIRO CAMINITI
Anastasi fu ingaggiato da Catella, previo interessamento dell’avvocato Gianni al patron dei frigoriferi Giovannone Borghi, un uomo doppio, ma soltanto nel fisico, mento doppio, sopraccigli doppi, pancia se vogliamo tripla; però, una persona lastricata di buone intenzioni, Borghi aveva quasi raggiunto l’accordo con l’Inter per l’osannato centrattacco del suo Varese, ma all’ultimo momento fu galeotta una questione di compressori per frigoriferi e Anastasi passò alla Juventus, dopo che aveva già indossato in amichevole la maglia neroazzurra.
I benpensanti si scandalizzarono. In realtà, il trasferimento fu solo rinviato di alcuni anni, i migliori della carriera del picciotto, di pelle quasi scura, due occhi balenanti, una tosta furbizia, due svelte gambe di levriero.
Alla Juventus trova il fustigatore dei costumi Heriberto Herrera, che aveva nell’arcaico grandissimo Gipo Viani uno dei suoi pochi veri estimatori in un paese calcistico schiavo della pigrizia tecnica: «La Juventus sta praticando il gioco più moderno del mondo, è finita l’epoca degli specialisti; io faccio solo il goal, io difendo e basta».
Diceva il Ginnasiarca prima dell’inizio del campionato, deludente per la Juventus, non per Pietruzzu, il cui bottino fu di 14 goal, rivelando tutta la sua astuzia istintiva e di volo un destro sciabolatore che levati.
Furbo, ghiotto di tutto, soprattutto di popolarità, colpisce che non ami parlare nel dialetto di Meli. Si esprime in compìto italiano, insomma, e va a miracol mostrare del suo stile impolverato (i primi calci li ha dati scalzo, sui terreni aridi della periferia di Catania) già in questo primo campionato juventino: 1968-69.
La fama gli dà subito un po’ alla testa. Con i cronisti, anche con me, ha rapporti difficili. Nello spogliatoio qualche compagno, ad esempio Furino, non ci andrà mai d’accordo. Voglio dire che ha spesso atteggiamenti spocchiosi.
Pure, la Juventus ha cambiato il modo di vivere il calcio; è datato Heriberto Herrera il rinnovamento tecnico che prosegue clamoroso proprio alla fine di questo campionato, quando avanza sulla scena monsù Rabitti e la squadra ripiglia confidenza con le vittorie strappa applauso.
L’Avvocato ha già richiamato Boniperti come amministratore delegato; presto lo farà presidente, e sarà il primo presidente anche tecnico nella storia del nostro calcio. Nascerà la Juventus ineguagliata e ineguagliabile del collettivo in campo e fuori campo.
Anastasi ha tutto il tempo, sono sei anni di gioie e di rabbuffi, di goal maiuscoli e di sensazionali strafalcioni, per lasciare un’impronta. Non si era mai visto un centravanti come lui. L’istinto s’incarnava in uno scatto abbagliante come le onde del mare etneo al suo sole infuocato. Arrivando in bianconero, è famoso; in maglia azzurra si è laureato a Roma campione europeo.
Paragonato ai centravanti tradizionali, è un misto di Gabetto e Lorenzi, ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell’azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone la femmina.
Quando al povero Picchi subentra Vycpálek mal gliene incoglie, perché Cesto è bonario ma caustico, ama le posizioni chiare, la lealtà. Anastasi ha atteggiamenti da divo in uno spogliatoio, dove legifera il collettivo.
Ma subito per me diventa Pietruzzo, gioca partite stupefacenti e segna molti goal decisivi.
Forse il campionato del primo scudetto bonipertiano (1971-72) è pure il suo più efficace, il suo apporto è trascinante, per supplire, insieme a tutti, all’assenza nevralgica di Bettega ammalatosi.
«Quel campionato rappresentò il primo traguardo della mia carriera e dell’esperienza juventina. Arrivai al Nord che ero davvero un ragazzino e presto diventai uomo, anche in virtù dell’aria che si respirava in società: erano i tempi di Catella, Giordanetti, Allodi e, soprattutto, Boniperti».
Un campionato tormentoso e per Cesto drammatico che si risolve in volata, con un bel 2-0 al Comunale inflitto al Vicenza. E si può ben dire che questa Juventus di Anastasi si riallaccia alla migliore tradizione della società, vince con una sola lunghezza (43 a 42) su Milan e Torino (che un sardo di nome Giagnoni pilota con demagogica sciarpa), ma è come sta scritto nel suo stemma, la vittoria del forte che ha fede.
Anastasi vincerà altri due scudetti, quello numero 15 in cui assopirà un tantino il suo vulcanico talento.
C’è qualcosa che non va nei costumi atletici del catanese? Ha qualche problema privato? Si può rispondere, senza indugio: quel suo gioco tutto istinto, i suoi scatti a ripetizione, lo logorano; senza la forza fisica rapinosa di un Chinaglia, non è meno rapinoso il suo gioco che siede i portieri.
Rivivrà diversamente, com’è diversa Catania da Palermo, il mare etneo dal mare di Mondello, questo scatto in Schillaci.
Alla conquista del suo terzo scudetto, campionato 1974-75, Anastasi arriva in coppia con Damiani, nove goal a testa, uno in meno l’eterno Altafini.
Lapilli e scaglie dorate del suo scatto inimitabile sono oramai cenere; con un colpo di genio Boniperti, nell’estate del 1976, lo scambia con l’anziano Boninsegna. Il Pelé Bianco naufragherà nelle nebbie di Milano.

ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DELL’APRILE 1981
Anastasi, detto Pietruzzo è stato forse il caposcuola, il pioniere dei calciatori che dal Sud sono arrivati al Nord per fare fortuna.
Non tutti sanno che a determinare il destino di Pietro Anastasi fu, probabilmente, una donna incinta presentatasi all’aeroporto di Catania e supplicando che la lasciassero partire, anche se non aveva un posto sull’aereo, perché doveva assolutamente recarsi a Milano.
Quel gentiluomo che era Casati, allora general manager del Varese, le concesse il suo posto, accettando di partire la sera dopo. Lunedì pomeriggio Casati si recò al Cibali per assistere a una partita tra squadre ragazzi; in una di quelle squadrette giocava un certo Pietro Anastasi. Casati lo osservò attentamente e l’affare fu concluso in poche ore. Pietruzzo si comprò una giacca nuova e una valigia fiammante per salire al Nord.
Divenne famoso a suon di goal, iniziando la carriera proprio nelle file del Varese. D’acchito il picciotto vinse la propria battaglia, quella contro il mostro del Nord, cioè il gelo, l’indifferenza, l’incomunicabilità. Vinse senza mai sottrarsi al pericolo di certe battaglie, ma affrontandole a viso aperto anche quando sapeva di rischiare grosso.
Doveva finire all’Inter ma Gianni Agnelli soffiò il giocatore a Fraizzoli e lo vestì in bianconero quando già era stato fotografato in neroazzurro per la gioia illusoria dei tifosi interisti.
Alla Juve fece fortuna e fu idolatrato dalla folla: era il centravanti che nelle iperboli tifose si vide etichettare come Superpietro, Pelé Bianco o cose simili.
La sua figura s’installò in paradossali “ex voto” sportivi e fu ripetuta per centinaia di pose fotografiche in alloggi torinesi, in case siciliane, dietro il letto, sulla porta della cucina, alla sommità di cassettoni e credenze.
Allo Stadio Comunale, in maglia bianconera, cominciò non la vita, ma la leggenda popolare di Pietruzzo. Robusto, seppur piccolo, veloce e sgambettante, carico di fantasie da cortile, un acrobata istintivo: questo il giocatore. Come ragazzo era simpatico, ingenuo, modesto, con qualche improvvisa punta d’orgoglio.
Quando nel 1968 arrivò alla Juventus, aveva solo vent’anni e tanto entusiasmo. Lo gelarono subito, anche se si era in piena estate: il presidente Catella, piemontese di stampo antico, lo strigliò subito per aver osato presentarsi al raduno senza cravatta. Così lui, che era arrivato al primo appuntamento con la Vecchia Signora timido e sorridente, se ne andò con gli occhi rossi. Né quelle lacrime furono le ultime.
A settembre, la lezione tattica di Heriberto Herrera gli gonfiò di nuovo gli occhi di pianto. Per fortuna, quando era sul campo tutto filava a gonfie vele: 28, 14 goal, tre in più che la stagione precedente nel Varese.
Nemmeno la gloria (con tanto di maglia azzurra della Nazionale e un titolo di Campione d’Europa) è stata un passaporto sufficiente per l’amicizia: si sentiva scartato, isolato e così si chiudeva sempre più in se stesso.
La sua ombrosità, logica conseguenza della difficoltà di comunicazione, era scambiata per selvatichezza e qualcuno ci ricamava sopra, sino all’insulto.
La stagione successiva le faccende calcistiche andarono ancora meglio: ventinove partite, quindici goal. A fine campionato la fortuna gli voltò le spalle: alla vigilia della partenza della squadra nazionale per il Messico, dove erano in programma i Campionati del Mondo, Pietro fu colto da violenti dolori. Fu ricoverato in clinica e operato. Addio Nazionale, addio Mondiali.
La sfortuna continuò poi a perseguitarlo, non ritrovò più per la successiva stagione lo smalto dei giorni migliori, segnò soltanto 6 reti, perdendo anche quei pochi amici di passaggio che era riuscito a racimolare.
La straordinaria forza di volontà lo tenne a galla, in attesa di giorni migliori, del successo definitivo. Fu proprio allora che Anastasi iniziò un processo irreversibile, quello che fece di lui un autentico uomo, un personaggio di successo.
L’introverso picciotto, ex raccattapalle del Cibali, egoista in campo, scontroso fuori, aveva finalmente imparato a comunicare, dentro e fuori del calcio, fino a diventare un protagonista: Campione d’Italia, uno dei migliori, un autentico leader.
Pietro ricorda ancora quel periodo: «Sì, me lo dicevano tutti e anch’io dovevo constatare il cambiamento, il miglioramento. Ma una ragione precisa non c’era, al di là del fatto che con gli anni ero un po’ maturato. Quando ero arrivato alla Juventus, diffidavo di tutti, dei giornalisti in particolare. In campo pensavo solo a mettermi in luce, al tornaconto personale. Poi diventò tutto diverso e mi accorsi che contava prima la Juventus e poi Anastasi; per la squadra ero disposto a fare qualsiasi sacrificio».
Sicuramente gli giovò molto il matrimonio, placandone la scontrosità e regolandone gli eccessi gastronomici: «A me piacevano i cibi piccanti, la cucina siciliana; molti miei periodi non positivi furono determinati da una pessima condizione fisica, conseguenza di disturbi intestinali. Un giorno decisi di abolire salumi e salse piccanti; la salute tornò e la condizione tecnica ne trasse giovamento».
Poi la moglie, Anna Bianchi, gli regalò due figli e altri importanti equilibri furono conquistati. Fu quello il periodo migliore della sua carriera, quello in cui riuscì a riconquistare stabilmente il posto in Nazionale, arrivando poi a collezionare ben 25 gettoni di presenza.
Vinse lo scudetto al termine della stagione 1971-72 (giocando tutte e 30 le partite) e fece il bis nel 1972-73, giocando 27 gare su 30; il terzo titolo di Campione d’Italia arrivò al termine della stagione 1974-75, anno in cui Pietro giocò 25 partite.
Il divorzio dalla Juve avvenne nel corso della stagione 1975-76. Ritenendo di essere stato preso di mira dall’allenatore Parola, il picciotto si lasciò andare a roventi e polemiche dichiarazioni nella settimana precedente un delicatissimo derby con il Torino.
La Juventus era stata sconfitta a Cesena e stava preparandosi a disputare l’incontro con il Torino. Anastasi, dopo un allenamento al Combi, improvvisò una conferenza stampa, nel corso della quale vuotò, come si suol dire, il suo sacco, pieno di livore e incomprensioni. Un attacco preciso verso l’allenatore Parola e certi compagni di squadra.
Com’è nel proprio stile, la Juventus tolse di squadra Anastasi il quale, nella stagione successiva, fu ceduto all’Inter in cambio di Boninsegna.
Tutti i tifosi bianconeri ricordano ancora le notizie sensazionali apparse sui giornali di quel 9 luglio 1976. La Juventus annunciava il trasferimento di Anastasi alla società neroazzurra che cedeva ai bianconeri il centrattacco Boninsegna, con l’aggiunta di 750 milioni.
Contemporaneamente Capello era ceduto al Milan e la Juve aveva in cambio Benetti più 100 milioni. Un’operazione sensazionale che portava la Juve sulla strada di altri trionfi.
Anastasi, dopo l’Inter, approdò ad Ascoli. Forse era anche il traguardo cui Pietruzzo anelava, dopo aver perso la gloria della casa bianconera. Ascoli ha rappresentato la tranquilla città di provincia, dove il Pelé Bianco sta oggi per terminare la sua lunga e tormentata carriera.
Abbiamo visto recentemente Anastasi e abbiamo parlato dei tempi felici in cui guizzava come un fulmine verso la rete avversaria e mandava in delirio i suoi fan con i goal più pirotecnici e brasiliani.
Anastasi ricorda tutto e tutti, la sua amicizia con Bettega, l’unico che seppe in certo qual modo sgelarlo dal mondo di diffidenza e incomprensione in cui era vissuto per molti anni.
Della città di Torino, in fondo al cuore, ha una certa nostalgia. Forse si rivede ragazzo, correre disperatamente dietro ad un pallone, su un prato d’erba ispida, sotto il cocente sole di Sicilia.
Forse ricorda il giorno in cui sbarcò a Torino e la leggenda si colorì con i toni di una ballata da cantastorie. Nel formicolio delle mansarde, degli agglomerati umidi delle periferie abitate dalla gente della sua terra, il Pelé Bianco riuscì a portare lume con le sue acrobazie e con il suo nerissimo ciuffo di capelli.
La gloria arrivò presto e lo sistemò su un solido piedistallo. Pietro sa che la gloria aveva un nome: Juventus. Per questa ragione non ha mai dimenticato la società bianconera e i tifosi che dalla Curva Filadelfia urlavano il suo nome: “Pietro, Pietro!”.