Gli eroi in bianconero: Ian RUSH

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
21.10.2019 10:30 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Ian RUSH
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Nasce a Saint Asaph, nel Galles, il 20 ottobre 1961, Arriva alla Juventus nell’estate del 1987 con la fama di miglior attaccante del mondo, in virtù delle valanghe di goal segnati con il Liverpool (alla fine della sua carriera saranno 346 in 658 partite) e dei numerosi trofei sollevati, fra cui la Scarpa d’oro. Prenotato dalla squadra bianconera, che vince la concorrenza dei maggiori club europei, un anno prima è destinato a far coppia con Platini, per riproporre grandi coppie del passato, in particolare quella composta da Sivori e da Charles.

Il gallese, che dovrebbe rinverdire le gesta del suo conterraneo Charles, arriva alla Juventus nel suo momento peggiore, con una squadra rinnovata e, soprattutto, segnata profondamente dal ritiro di Platini.

Non c’è più nemmeno Trapattoni, al suo posto siede Marchesi e Ian fatica tantissimo a inserirsi in schemi molto diversi da quelli di Liverpool. Marchesi chiede alla squadra di difendersi, prima di tutto, obbligando Laudrup a fare il terzino. Il resto della squadra non è un granché, gli eroi di mille battaglie sono stanchi e i nuovi non sono all’altezza dei sostituti.

Rush non riesce ad adattarsi all’Italia, sono molti i ritardi accumulati nel presentarsi agli allenamenti, (gli costeranno alcuni milioni di multa) e accusa pure continui malanni che ne rallentano l’inserimento, come l’infortunio accorsogli poco prima dell’inizio del campionato e che lo tiene lontano dal campo per circa un mese.

Discontinuo, quando è in giornata è irresistibile: se ne accorge il Pescara di Leo Junior alla terza giornata, affondato da un goal del gallese (mentre in Coppa Italia gliene rifila cinque in due partite!) e pure l’Avellino, liquidato con tre reti, una delle quali firmata dal centravanti venuto da Liverpool.

Segna anche contro all’Empoli e all’Ascoli, ma è contro il Torino che Rush dà il meglio di sé, segnando sia all’andata che al ritorno e mettendo il proprio sigillo anche nello spareggio per l’ammissione alla Coppa Uefa, risolto ai calci di rigore proprio dal gallese.

Rush, alla fine della stagione, ritorna al campionato inglese, sicuramente più adatto alle sue caratteristiche, ma lasciando la sensazione che, se avesse trovato un’altra Juventus, la sua storia avrebbe potuto essere raccontata in modo diverso.

«Sono arrivato in Italia nel momento in cui si ritirava Platini, e mi mandano via adesso che arriva Zavarov. Peccato, perché questa Juventus mi piace davvero, è diversa rispetto a quella dell’anno passato, fatta di uomini più esperti, anche se da scoprire, comunque non provenienti da squadre abituate a lottare per non retrocedere. Lo stesso Marocchi, che arriva dalla Serie B, viene da una squadra che ha sempre giocato all’attacco. È cambiato l’allenatore, se ne è andato Marchesi, con il quale non avevo trovato un’immediata comunicabilità: anzi, non ho neanche mai capito a che ora fissava, giorno per giorno, gli allenamenti. È stata un’impresa, per me, anche questa. Torno al Liverpool, il massimo, anche perché la mia ex squadra si è rinforzata ulteriormente da quando me ne sono andato. E stanno rinforzando anche i botteghini: da quando hanno annunciato il mio rientro stanno esaurendo gli abbonamenti, c’è la coda in strada, insomma, all’Anfield non aspettano altro che il sottoscritto, Alla Juventus invece la situazione mi sembrava diversa. In Italia, la gente ti parla come se fosse tua amica, poi se ne vanno e ti piantano un coltello nella schiena. Quando la Juventus giocava fuori casa, era ovvio che bastava il pareggio. Vedevo pochissimi palloni e, in queste condizioni, era difficile fare molto. Stranamente, per una squadra italiana, la Juventus giocava con palloni lunghi e alti nella speranza che io, in quanto britannico, amassi i contrasti aerei. Non capisco, il colpo di testa non è mai stato il mio forte. Per me sarebbe stato più semplice giocare con il pallone a terra. Mi sono rivolto ai vecchi amici per chiedere aiuto, ne avevo bisogno, cominciavo a essere veramente preoccupato. Souness mi ha impedito di impazzire, mi ha convinto che sono ancora capace di giocare. Mi ha parlato della mentalità italiana. Tutto è esagerato: la vittoria, la sconfitta, i goal. Si sono scritte molte bugie sul mio conto, ma i problemi sono stati quasi esclusivamente di natura tecnica. Mi piaceva la cucina italiana, scoprire un altro stile di vita. Ho anche preso lezioni di italiano. Ma la prima cosa da tenere presente è che in Italia non ci sono grandi attori o stelle del rock. La voce di Robert Redford è doppiata, e quindi come è possibile identificarsi con lui? Per cui, tutti si rivolgono al calcio. Noi calciatori siamo i numeri uno nei loro pensieri, le nostre vite sono esaminate minuto per minuto. Tutti si sentono degli esperti: il parcheggiatore, il barista, il cameriere, tutti. A volte dovevo fermarmi e convincermi che non era vero, ma invece era proprio così. Pochi giorni prima ero a Liverpool, lavorando duramente, segnando dei goal e bevendo qualcosa con i compagni dopo la partita. Alla Juventus, dopo la partita, non c’era nulla: la doccia, lo spogliatoio, e poi via. Ma forse sarebbe difficile fare due chiacchiere con qualcuno che ti ha sputato in faccia per novanta minuti. E così bisogna tenersi tutto dentro: i pensieri buoni e cattivi, le tensioni. È a questo punto che ho capito quanto mi mancava il Liverpool».