Gli eroi in bianconero: Alfredo FONI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
20.01.2022 10:23 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Alfredo FONI
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Foni approdò alla Juve – si legge su “La storia della Juventus” di Perucca, Romeo e Colombero – giusto in tempo per essere tra i protagonisti di uno scudetto: l’ultimo del mitico quinquennio e il primo, anzi l’unico, nella sua carriera di campione, olimpionico e mondiale. Era stato acquistato dal Padova come rincalzo di Rosetta e Caligaris, ma destino volle che in quella prima stagione in bianconero giocasse molto più lui di quei due fenomeni ormai al tramonto: così fece coppia ora con l’uno, ora con l’altro, quasi a ricevere il testimone di una ideale staffetta.
Due anni dopo, infatti, erano Foni e Rava i nuovi dioscuri delle aree di rigore, da affidare alla leggenda. Insieme avrebbero vinto Olimpiadi e Mondiali ma, per la Juventus, solo due Coppe Italia.
La storia juventina di Foni è legata a quello che viene definito, tout court, un record, ma che è qualcosa di più di una curiosità da bricolage calcistico: le sue 229 partite ininterrotte sono una vera sfida, vinta, agli incidenti di gioco, ai malanni, alle insidie degli scadimenti di forma, alla severità degli arbitri. Foni, tra l’altro, non fu mai squalificato e anche questo può essere un bel vanto, per un terzino.
Cominciò, la lunga sequenza, in una domenica storica, il 2 giugno 1935 quando a Firenze la Juventus vinse la partita decisiva per il suo quinto scudetto consecutivo. Compagni di Foni, nelle retrovie, erano il portiere Valinasso, Rosetta, Monti. Da allora per sette campionati neppure un’assenza: cambiavano i nomi al suo fianco – Amoretti, Bodoira, Perucchetti in porta, Rava, Varglien, Depetrini, Capocasale, Olmi, Locatelli tra i difensori – ma lui c’era sempre. Un giorno, molti anni più tardi, gli chiesero cosa ricordasse di quella sua impresa e la risposta tracciò un esemplare ritratto d’epoca: «Quando stavo per raggiungere il tetto delle presenze in campionato lo dissi al vicepresidente della Juve, che era il barone Mazzonis. Mi aspettavo un incitamento, un complimento. Il barone mi rispose che gli risultava sempre regolare il pagamento del mio stipendio e che quindi, conquistando quel record, avrei fatto solamente il mio dovere. Restai di sale. Alzai i tacchi e me ne andai».
La duecentoventinovesima fu un derby. Sei anni e otto mesi dopo la domenica di Firenze: 31 gennaio 1943. Alle spalle di Foni c’era un nuovo portiere, Lucidio Sentimenti, l’altro terzino era il minore dei Varglien, centromediano un giovane torinese di notevole classe, Carletto Parola e là davanti un vecchio compagno di Nazionale e di vittorie mondiali, Giuseppe Meazza. Di fronte l’attacco del «grande Torino» lanciato alla conquista del primo dei cinque scudetti. Foni, quel giorno, vide segnare il suo dirimpettaio torinista, il terzino destro Sergio Piacentini e l’avversario diretto, Ferraris II. Otto giorni dopo, sempre a Torino, contro il Liguria, per la prima volta il suo nome non figurava in formazione. Il motivo dell’assenza non è molto noto ai cacciatori di queste curiosità: Foni era stato chiamato a Roma al distretto militare da una cartolina precetto. Erano giorni duri e tragici: l’Italia viveva sotto i bombardamenti, in Libia le nostre truppe avevano appena lasciato Tripoli, in Russia l’Armir si stava ritirando dalla linea del Don.
Per Foni non fu solo l’interruzione di una serie record, ma praticamente la fine di una carriera. In seguito giocò pochissimo, una dozzina di partite, l’ultima ancora contro il Torino, nel marzo del 1947. Molti anni dopo, una trentina, venne un altro friulano a togliergli il primato delle presenze ininterrotte. Si chiamava Dino Zoff, anche lui giocava nella Juventus: era il portiere che proprio Foni, divenuto allenatore, aveva lanciato, ragazzino, nell’Udinese.
Foni era nato a Udine – 20 gennaio 1911 – e nell’Udinese aveva tirato i primi calci professionali senza trascurare gli studi che lo avrebbero portato alla laurea in economia (e qualche vecchio almanacco del calcio lo segnala rispettosamente con il titolo accademico: Foni Dott. Alfredo, una vera finezza). Dall’Udinese lo acquistò la Lazio per cinquantamila lire, si dice, e uno stipendio che anticipava una famosa canzonetta, mille lire al mese.

Giocava attaccante, ma segnava pochissimo. A Roma la sua impresa più notevole fu un gran gol al volo in un derby pareggiato al Testaccio. Poi chiese di essere ceduto perché voleva laurearsi a Padova. Qui in una squadra che schierava anche Annibale Frossi, con tanto di occhiali, cominciò a cambiar ruolo, retrocedendo saltuariamente a terzino. Lo troviamo centravanti, tuttavia, nell’ultima partita da avversario della Juve: era il giorno del congedo di un trio famoso, Combi, Rosetta, Caligaris (non avrebbero più giocato insieme in campionato) e il Padova fu travolto con un sonoro cinque a uno.
Nella Juventus Foni concluse la sua metamorfosi e dopo aver fatto il mediano, Pala, il centrattacco fu definitivamente terzino. Per Gianni Brera («giocava onestamente bene, qualche volta di agilità, la sua battuta destra era lunga e forte, il tiro di collo una vera squisitezza») era stata la scarsa fantasia a spingerlo fin sulla linea dei «back». E probabilmente anche la scarsa propensione a goleare. Sentite cosa si leggeva di lui sul «Calcio illustrato» ai tempi del Padova: «Giocatore calmo e compassato, alle volte anche troppo, dosa con intelligenza i suoi passaggi, a volte realizza, ma altre indispettisce il pubblico perché perde ottime occasioni». Quattro anni di serie A e non più di dodici gol: una volta alla Juve non riuscì, in quella lunga milizia, a farne uno solo su azione. Lo chiamavano saltuariamente, questo sì, a battere i rigori: ne infilò cinque in tutto.
Era nato per il gioco di difesa, aveva un grande senso della posizione, era un temporeggiatore come «Viri» Rosetta: «Io giocavo di slancio, di forza» ricorda Rava «lui aveva una tecnica superiore, una grande calma, una straordinaria sicurezza». L’intuito, nei momenti cruciali, era pari alla decisione: ammiratissima, spesso, la potenza dei rimandi, uno dei gesti atletici di gran spicco in quel calcio ancora antico. Quando debuttò ai mondiali contro la Francia fu lui – con Rava e Andreolo – a salvare la partita grazie alla «qualità e calma gelida del suo gioco». E contro il Brasile, si legge, «spadroneggiò per potenza, tempestività nelle entrate, mirabile gioco di testa e affiatamento con Rava». Nella finale contro l’Ungheria, poi, conquistò persino i severissimi critici inglesi: «Gli attacchi ungheresi si infrangevano contro lo sbarramento dei terzini italiani, solido come la rocca di Gibilterra» Detto da loro era il massimo.
A modo suo Foni ebbe la sfortuna di essere capitato alla Juventus negli anni grigi che seguirono il famoso quinquennio. Dopo lo scudetto del ‘35 le uniche vittorie vennero in coppa Italia: in campionato non andò oltre un secondo posto. In compenso ci furono i trionfi in maglia azzurra, dalle Olimpiadi («Avete mai provato a essere incoronati?» scrisse felice dopo il trionfo di Berlino dove era il capitano della squadra) al Mondiale. In Nazionale giocò ventitré partite, diciannove delle quali vittoriose e una sola perduta, proprio in Svizzera, sua seconda patria. La prima era stata con l’Olimpica nel 1936, l’ultima fu anche l’ultima partita degli azzurri in piena guerra: a Milano contro la Spagna, un quattro a zero venuto tutto nel secondo tempo dopo che nel primo il trentunenne Foni si era esibito in alcuni salvataggi provvidenziali; Quel giorno firmò il primo gol in Nazionale Valentino Mazzola. Un suo compagno del Grande Torino era pronto a ricevere in eredità la maglia di Foni. Si chiamava Aldo Ballarin.
Appena conclusa la carriera di calciatore, Foni passò a quella di allenatore. Cominciò col Venezia, serie B, nel 1947 poi si trasferì al Casale, al Pavia (serie C), al Chiasso. Nel 1951 era alla Sampdoria, l’anno dopo all’Inter dove vinse due scudetti all’insegna del «primo non prenderle» secondo lo spirito che lo aveva animato quando giocava. In due riprese – dal 1954 al 1956 e dal 1957 al 1958 – fu alla guida della Nazionale, nel 1958 passò al Bologna, poi alla Roma, all’Udinese (ecco Zoff che gli avrebbe tolto il record delle 229 partite), ancora una rappresentativa nazionale, quella di Lega, di nuovo alla Roma, in Svizzera per la Nazionale rossocrociata (mondiali 1966), ancora l’Inter (1968).
È morto nel gennaio 1985 nella sua casa vicino a Lugano, una domenica, dopo aver visto in Tv i gol del nostro campionato.