Gli eroi in bianconero: Alberto CORAMINI
«Coramini come Sivori». Queste parole, dette da Heriberto Herrera, scatenarono un vero e proprio putiferio fra i tifosi juventini e fra gli addetti ai lavori. Il paraguagio sosteneva che per lui non esistevano differenze: tutti erano titolari, tutti erano riserve. Va da sé che il grande Omar non la prese benissimo e dichiarò guerra al Ginnasiarca. La spuntò Heriberto e il Cabezón fu costretto a fare le valigie. Per Alberto Coramini, autentica meteora bianconera (17 presenze fra il 1966 e il 1968), quella frase significò entrare di diritto nella storia juventina.
BEPPE BARLETTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GENNAIO 1968
Alberto Coramini ha ventitré anni, un viso tondo e liscio, occhi buoni e sorridenti, maniere distinte, discorso sobrio, intelligenza sveglia.
E fa di professione… l’inseguitore.
A una maglia di titolare nella Juventus.
Ma non c’è affanno, non c’è malizia in questa continua (e forse eterna) rincorsa a una casacca bianconera «fissa». È come se il buon Dio gli avesse affidato un compito da portare a termine.
A qualcuno Domineddio dice: vai per il mondo e insegna il Vangelo.
Ad altri: cammina, lavora e costruisci case. Ad altri ancora: prendi una parrucca, un po’ di cerone e fai ridere – o piangere – la gente con la tua arte.
Ad Alberto Coramini, nato a Maserà di Padova nel 1944, ha detto: impara il gioco del pallone e datti da fare. Alla Juventus c’è anche un posto per te. Magari non subito, magari non sempre. Ma c’è.
Alberto Coramini, ragazzo di gran fede, è arrivato alla Juventus che aveva sedici anni. E poco dopo ha trovato Paulo Amaral. L’allenatore brasiliano, controfigura del sergente tipico dei «marines». L’uomo che ha cercato nella Juve un grande rilancio. E che ha sfiorato lo scudetto giungendo secondo. Coramini giocò, sotto Paulo Amaral, importanti partite internazionali. Mai in campionato, però.
Faceva la sua strada, Alberto, senza mugugni o sospetti. Si allenava come gli dicevano, seguiva un treno di vita regolarissimo, senza furbe stramberie. E senza sentirsi nelle ossa giovani l’apatia tipica del campioncino che si ritiene trascurato solo perché la maglia di titolare resta sulle solide spalle del compagno più anziano, che ha una lunga carriera dietro di sé, o su quelle del giovanissimo «asso» cui madre natura ha distillato nell’attimo vitale le doti ineguagliabili del fuoriclasse.
Ogni tanto, tra un torneo De Martino e un campionato della «Primavera», lo inserivano nella «rosa» dei titolari. Così cominciò a farsi l’occhio buono. Viveva la stessa vita dei «numeri uno», degli eletti. Mangiava e si allenava con loro. Beccava le stesse «botte» in allenamento e gli stessi rimproveri. Non prendeva i loro stessi soldi. Ma questo è un fatto che non ci interessa. Per il momento.
Passarono gli anni. Il ragazzo padovano crebbe di peso, di statura e di esperienza. Rimase tale e quale solo nel carattere. Puntiglioso, serio, ordinato e disinvolto.
Fece un grosso campionato in serie B, dove lo avevano prestato a una squadra animata di buone intenzioni. E ritornò al suo vero ruolo di… inseguitore, nei ranghi della Vecchia Signora. Frattanto era giunto dalla Spagna il «señor» Heriberto Herrera. Uomo cui i divi puzzano un po’ di marcio. Uomo che ama il parlar franco e poco, l’agire svelto, grintoso e ostinato.
Coramini ricominciò da capo. Ma il paraguayano l’aveva già adocchiato. Solo che, fedele a una massima non sua ma che pare tagliata a pennello su di lui, non poteva mandare in campo più di undici atleti per volta. Dodici, da quando il nuovo regolamento permette il cambio del portiere.
Perciò Alberto Coramini continuò la trafila ormai solita. Allenamento, allenamento, gare De Martino e Primavera, duri allenamenti, secchi rimproveri. E qualche lira in più. E con maggior frequenza, le convocazioni per il «ritiro» dei titolari.
Ci fu anche l’esordio in serie A, contro il Vicenza mi pare. E fu una vittoria bianconera di misura.
Poi, nuovo periodo di quarantena. Con tutti i sensi sempre all’erta, però. Perché il «mister» non tollera la gente dal piglio fragile, i lamenti da donnicciola, i «tagli di colletto» per vendetta.
Alberto Coramini ha continuato così per mesi e mesi. E quest’anno, quando all’avvio del campionato (e subito nel prosieguo) la Juventus si è trovata rabberciata più volte, Coramini ha ripreso a sperare. La convocazione si è ripetuta frequentissima finché, contro la Roma, parve arrivare il grande giorno. Invece, all’ultimo momento, toccò al buon Volpi, di scendere in campo. Coramini, inutile negarlo, ci rimase secco. Ma gli bastò un’occhiata del mister per riprendere colore.
«Meglio, no?» Gli disse Heriberto a fine gara. «Lei si è risparmiato un po’ di responsabilità in una sconfitta che brucia. La terrò buono comunque per una partita più fortunata».
Ed è stato di parola. Solo che, per teatro della nuova esibizione come titolare, Heriberto per Coramini scelse Bucarest. Il soggetto che si andava a recitare, una trama drammatica e pericolosa, era la Coppa dei Campioni, scena seconda.
«È stata una gran battaglia», dice sorridendo Coramini.
«Ha sofferto l’emozione dell’esordio in un clima così impegnativo?».
«Per niente. Ma debbo ricordare che tempi addietro giocai (in amichevole, però) contro il Real Madrid dei Puskás e dei Di Stefano».
Subito dopo Bucarest, e a seguito di un viaggio piuttosto complicato e affaticante, la Juve ha giocato a Brescia, contro una compagine dal dente avvelenato per la sconfitta subita otto giorni prima dal Milan, in modo alquanto sfortunato.
Coramini ha marcato Salvi, il peperino sgattaiolante tutto finta e passo doppio.
«Il “mister” mi aveva detto di non gettarmi allo sbaraglio, che il piccoletto ama follemente chi gli balza frenetico addosso, perché in tal caso si libera con due “mosse” e poi va via. Ho fatto come il “mister” ha detto. Salvi ha sfarfalleggiato per una decina di minuti. Poi, anticipandolo e “contrandolo” senza esitazione l’ho frenato, mi pare».
«Cosa chiedi adesso al tuo destino?».
«Niente che non abbia chiesto prima. Una carriera dignitosa, magari senza grossi infortuni. E una maglia di titolare. Magari nella Juventus. Sa, ormai sono di casa».