Gli eroi in bianconero: Pavel NEDVED

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
30.08.2024 10:20 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Pavel NEDVED

«Ci faceva sempre goal – ricorda Luciano Moggi – lo prendiamo noi, così risolviamo il problema, dissi nel 2001 a Bettega e Giraudo. Oltre che a rompere le scatole a noi della Juventus, Pavel Nedved era davvero un gran giocatore: centrocampista offensivo, qualità tecniche eccellenti, nessuna differenza tra destro e sinistro, super anche nel calciare le punizioni. Tutto questo associato a un fisico infaticabile. Correva sempre, ricordo che negli allenamenti bisognava fermarlo, altrimenti non smetteva più. Correva anche negli spogliatoi, mai visto nulla di simile.
Un giorno mi raccontò che quando militava nello Sparta Praga, i compagni lo chiamavano il Matto, perché si sottoponeva a dosi suppletive di allenamento, anche due ore in più. Insomma, un tipo da Juventus: tutto calcio e famiglia. Decidemmo di prenderlo, perché volevamo dar via Zidane per impostare una squadra più atletica, più veloce. Nedved era l’uomo giusto per noi. Ma portarlo a Torino non fu semplice. La trattativa con la Lazio di Sergio Cragnotti andò via liscia: stretta di mano a settanta miliardi di lire, contratto firmato a maggio 2001. Molto più difficile fu convincere Nedved. Infatti, non ne voleva sapere di venire alla Juventus. Non era questione di soldi, ma una scelta di vita. Lo chiamai diverse volte, ma non ci sentiva. “Direttore, grazie. Ma mi trovo bene alla Lazio e sto splendidamente a Roma: abito all’Olgiata, vicino ai campi da golf, il massimo. Qui io e la mia famiglia abbiamo tutto, perché andarcene?” È uno dei pochi “no” ricevuti in vita mia che non mi hanno fatto imbestialire. Perché le motivazioni di Pavel mi avevano confermato che, dietro al giocatore, c’era un uomo vero. Anche a Roma, Cragnotti e il direttore sportivo, Nello Governato, si diedero da fare per convincerlo. Senza fortuna. Tanto che strapparono il contratto con me e annunciarono, il 15 giugno, il prolungamento con il giocatore, con annessa rituale dichiarazione d’amore dell’atleta: “Felice di restare alla Lazio”. I dirigenti biancocelesti mi chiesero di cestinare anche il mio accordo. Ma la parola arrendermi non fa parte del mio vocabolario. Bisogna lottare sempre, anche quando la vittoria sembra impossibile. Perché in caso di successo, il gusto è doppio. E anche perché sapevo che la trattativa con il Real Madrid per la cessione di Zidane sarebbe andata a buon fine. Rischiavamo quindi di non avere il sostituto di Zizou. Feci il gioco dei dirigenti biancocelesti e tre-quattro giorni dopo, in conferenza stampa, dissi chiaro e tondo che Nedved non sarebbe arrivato: “Per la Lazio è incedibile”. Non era una bugia, le cose stavano esattamente così. Avevo semplicemente mentito a me stesso. Perché sapevo che la caccia a Nedved non era terminata. Ma ci volle un colpo di genio per ottenere il sì del giocatore. Gli telefonai di nuovo, mentre si trovava a Praga per le vacanze. “Pavel, fammi un piacere, fai un salto a Torino. Non ti dico di venire per forza alla Juventus, ma almeno a dare un’occhiata. Poi se decidi per il no, amici come prima. Ti mando un aereo dall’Italia, un volo privato, così non ti vede nessuno”. Pavel accettò e cadde nella trappola. Misi giù il telefono e avvisai giornali e televisioni: “Sta arrivando Nedved”. Il giorno dopo, Pavel atterrò a Torino, e quando scese la scaletta dell’aereo, si trovò davanti una folla di giornalisti. “Ma come hanno fatto a sapere del mio arrivo?” disse guardandosi intorno smarrito. Ovviamente feci finta di essere sorpreso e arrabbiato, ma dentro godevo come un matto e assaporavo già quel gusto (doppio) della vittoria. A Pavel tornò il sorriso quando lo portammo a visitare il Circolo Golf Torino, inserito nel parco regionale La Mandria, tra i più belli e affascinanti della Pianura Padana, già riserva di caccia dei Savoia, a due passi dallo splendore della Reggia di Venaria Reale. Gli occhi di Nedved luccicarono nel gustare quel paradiso. Il calciatore rimase stordito da tanta bellezza. E la Juventus era più vicina. Il resto lo fecero i tifosi della Lazio dopo quell’inaspettato blitz a Torino: trasformarono Nedved da idolo a traditore. Per lui furono giorni di contestazione a Roma. Momenti difficili, che culminarono, il 4 luglio, con la sua resa: “OK, firmo per la Juventus”. Fu la nostra, ma anche la sua, fortuna. In bianconero ha vinto quasi tutto, con la ciliegina del Pallone d’Oro 2003. Si è guadagnato la fiducia della famiglia Agnelli anche fuori dal campo, tanto che oggi è vice presidente della società bianconera».
Quando, nell’estate del 2001, Pavel sbarca a Torino, è un ventinovenne al culmine della gloria, che ha bisogno di trovare ulteriori motivazioni per diventare ancora più grande di quanto possa esserlo in quel momento. La Juventus, nuovamente, “lippiana” ha il passo della capolista e in mezzo al campo può contare sul più versatile dei campioni; Pavel, infatti, è capace di difendere contrastando con grinta, come di attaccare rifinendo o tentando la sorte con soluzioni balistiche sempre più ambiziose. Ci mette un po’ a rompere il ghiaccio, ma dopo un gelido Juventus-Perugia, la sera del primo dicembre 2001, la sua regolarità diventa impressionante. Fino a diventare l’uomo scudetto, il 21 aprile 2002 a Piacenza, con una rete che lo consegna dritto agli annali; la Juventus che insegue l’Inter quel giorno capisce che, grazie a Nedved, i giochi sono tutt’altro che chiusi. Goal fantastico, nelle battute finali, e rincorsa lanciata.
Finirà, come sanno tutti, quindici giorni dopo; la Juventus, che vince a Udine, sorpassa l’Inter distrutta proprio dalla Lazio: «Quello iniziale con la Juventus, fu un periodo difficile, perché avevo cambiato completamente preparazione e modo di giocare. Alla Lazio puntavamo sul contropiede, mentre qui dovevamo attaccare e trovavamo sempre avversari chiusi. Insomma, dovevo abituarmi, capire i movimenti e il gioco che veniva praticato. Ci ho impiegato un po’, diciamo fino a Natale; poi, grazie anche a Lippi che mi ha spostato in una posizione più centrale, mi sono trovato molto meglio ed ho cominciato a essere me stesso. Ricordo il giorno dello scudetto come una grande soddisfazione; ero particolarmente felice anche per la doppietta del mio amico Poborski, contro l’Inter».
Il 2002-03 è un anno magico; Nedved, è oramai il trascinatore e l’idolo della folla bianconera, che gli affibbia il soprannome di Furia Ceka. Il secondo scudetto della sua avventura bianconera arriva quasi senza clamori, perché i tifosi juventini, e lo stesso Pavel, sono concentrati sulla Champions League. La “Coppa dalle grandi orecchie” è un lungo, meraviglioso sogno. Nedved ha un rendimento incredibile per tutta la stagione, gioca e segna come non ha mai fatto in carriera. Ma è destino che, nella serata più bella e gloriosa, quella della semifinale di ritorno con il Real Madrid, il campione più amato non riesca a portare fino in fondo il suo meraviglioso progetto. Migliore in campo, autore dello straordinario goal che chiude la sfida, Pavel nel finale viene ammonito dall’arbitro e, diffidato, deve dare addio alla finale di Manchester. Una batosta per lui e un gravissimo, decisivo handicap per la Juventus, che si vedrà sfuggire quella coppa ai rigori. Ma il 2003 è comunque il suo anno; i giurati di tutta Europa lo eleggono Pallone d’Oro, la consacrazione di una carriera fenomenale e, al tempo stesso, lo stimolo per programmare altri trionfi. Torino sembra proprio essere la città adatta a chi, come lui, ha regole ferree di vita: «Per me esiste il calcio e la mia famiglia. Non ho bisogno di altro. A Roma vivevo fuori città, a Torino pure. Sono un cultore del lavoro, anche in vacanza cerco di organizzarmi in modo da poter mantenere la forma fisica che mi serve al momento in cui ritorno al lavoro».
Terminati gli allenamenti, le partite e i ritiri, Pavel si dedica a 360 gradi alla sua famiglia, alla moglie Ivana e ai due figli Ivana e Pavel: «Abbiamo deciso di chiamarli così perché, quando noi non ci saremo più, esisteranno ancora un Pavel e un’Ivana che si amano».
Un pensiero profondo, speciale, per un ragazzo nato e cresciuto a Cheb, venti minuti in auto dal paese dove viveva il suo grande amore, Ivana: «Ci siamo conosciuti quando io avevo quindici anni e lei tredici. Veniva a Cheb a trovare sua nonna, prima c’è stata amicizia, poi è scoppiato l’amore. Ci siamo sposati prestissimo, avevo ventuno anni». Racconta con un volto che lascia trasparire una dolcezza e che, in altre occasioni, viene ben mascherata da uno sguardo a volte addirittura severo.
Soprattutto quando parla del calcio, uno sport, un gioco, ma anche una professione, che Pavel ha sempre preso con grande serietà: «Sento addosso una grande responsabilità, fin da piccolo stavo male quando perdevo una partita, avevo ed ho sempre una grande voglia di migliorarmi. Sono una persona che ama prendere sul serio tutto quello che fa, mi capitava già da ragazzino e non solo in campo sportivo. Ora poi, che sono alla Juventus, sono emozionato e onorato. So che la mia gente si aspetta molto da me ed io non voglio certo deluderla».
Il popolo ceco lo considera un vero idolo: «Devo tanto alla mia Nazionale, perché mi ha permesso di mettermi in mostra a livello europeo e di arrivare fino qui».
Il vizio del goal, soprattutto con tiri da lontano, è proprio una delle sue caratteristiche. Una predisposizione nata quando Nedved era il più piccolo dei suoi compagni di squadra e per aggirare l’ostacolo provava a segnare da fuori area: «Mio padre, e poi il mio primo allenatore, mi mettevano i palloni tutti intorno alla linea dell’area di rigore e da lì provavo a tirare».
La stagione successiva è avara di soddisfazioni; la Juventus è falcidiata dagli infortuni e il campionato è molto deludente. Anche Pavel risente della stanchezza generale di una squadra che sta chiudendo il ciclo del suo grande condottiero, Marcello Lippi. Nell’estate del 2004 arriva Fabio Capello e, con esso, una ventata di aria nuova; Pavel ritrova lo smalto dei bei tempi e conquista altri due scudetti da protagonista assoluto, come suo solito. Dopo la bufera di Calciopoli, Pavel decide di restare alla Juventus, anche in Serie B: «Non ho mai avuto dubbi sul fatto di rimanere alla Juventus. Le offerte non mi mancavano, ma la mia famiglia ed io stiamo bene a Torino e poi devo molto a questa società e alla famiglia Agnelli, che mi è sempre stata vicino».
Il centrocampista ha ancora forti motivazioni e un obiettivo ben preciso: «Credo di poter dare ancora una mano a questa squadra e lo sento come un dovere. Finiti i Mondiali ho anche pensato di smettere, capita quando sei stanco. Dopo una settimana di vacanza, però, aveva già cambiato idea e mi sono dato un compito: voglio riportare subito la Juventus in A, perché è lì che merita di stare. Anche i nostri scudetti erano meritati; noi abbiamo sempre dato tutto in campo, avevamo uno squadrone e abbiamo battuto grandi avversari, vincendo onestamente e sono fiero di questo. La sentenza? Alla fine a pagare è solo la Juventus e questo non è giusto, soprattutto per i tifosi e i calciatori».
La decisione di Pavel di restare assume ancor più valore se si pensa a quanto il ceco abbia sempre desiderato vincere la Champions League: «Ci ho pensato, ma la mia Champions League ora è la Serie B. Anche perché centrare la promozione partendo da una penalizzazione così pesante sarebbe come vincere la Coppa. Bisogna essere realisti ed ho cancellato il pensiero della Champions; non toccherà a me alzarla, ma ho comunque grandi motivazioni per riportare la Juventus in Serie A».
Se già era un idolo per i tifosi, ora Pavel è un vero e proprio eroe: «No, non mi sento un eroe. Ho semplicemente fatto una scelta di vita; per quale motivo avrei dovuto cambiare? Sto bene a Torino, la mia famiglia è felice ed io voglio ricambiare quanto la Juventus mi ha dato in questi anni. Altri compagni hanno deciso diversamente? Beh, ognuno fa le proprie scelte, anche se credevo rimanessero più giocatori. Ora mi auguro che restino tutti gli altri campioni, perché dovremo comunque affrontare una stagione difficile; ci sono campionati all’estero molto meno duri della Serie B italiana. Quello che posso dire è che il mio impegno e il mio modo di giocare saranno gli stessi».
Chiaramente, anche nella serie cadetta è un protagonista assoluto e, grazie anche alle sue grandissime prestazioni, la squadra bianconera risale immediatamente in Serie A, sicura di poter ambire a qualsiasi traguardo, fino a quando la maglia numero undici sarà indossata da Pavel Nedved, la Furia Ceka: «Se mi guardo alle spalle, momenti tristi non ne vedo. Forse la cosa peggiore che mi è successa è di non aver giocato la finale di Champions; però la Juventus era in campo. Anche quando penso alla retrocessione non riesco a essere triste, perché la Juventus c’era e c’è sempre. Quel che resta, alla fine, è la felicità di giocare per la Juventus, Perché noi giocatori passiamo e la Juventus rimane. Per sempre».
Anche nella stagione che segna il ritorno nella massima serie, Pavel non si risparmia portando la Juventus in Champions League e a un ottimo terzo posto. Il campionato 2008-09 è l’ultimo per Nedved in maglia bianconera; il rendimento della squadra è un pochino deludente nonostante il secondo posto e l’eliminazione agli ottavi di finale da parte del Chelsea in Champions League. Pavel è, come sempre, un grande protagonista della stagione, arrivando anche a realizzare ben sette reti. Il 31 maggio 2009, proprio contro la Lazio, Nedved gioca la sua ultima partita con la maglia della Juventus. Del Piero gli cede la fascia da capitano e lui gioca una grandissima partita, onorando quella maglia che ha tanto amato: «Dopo otto stagioni con la Juventus è arrivato il momento di salutare tutti i tifosi, i compagni e la società e ringraziarli per il sostegno ricevuto in questi anni. A Torino ho vinto quattro scudetti e un Pallone d’Oro. Vorrei ringraziare in particolare mia moglie Ivana e i miei figli, che mi sono stati sempre molto vicini, accompagnandomi nel corso della mia carriera consentendomi di raggiungere traguardi straordinari. Alla Juventus continuerò a sentirmi legato da un rapporto di grande affetto e sono particolarmente grato alla famiglia Agnelli per avermi dato l’opportunità di giocare in questa grande squadra».
Il saluto di Del Piero: «È stato un giorno speciale. Lo è stato per Nedved e per noi, ancora non ci sembra vero di non rivederlo più nello spogliatoio, quando ci troveremo per ricominciare la stagione. Mi dispiace davvero che Pavel non sia più al mio fianco il prossimo anno, basta pensare a quello che è riuscito a fare in questa stagione: come tutti i grandi campioni ha chiuso alla grande. Mi legano a lui tanti ricordi, tante vittorie, qualche sconfitta, la scelta di restare alla Juve anche in Serie B per ritornare in alto insieme. Mi legano a Pavel tutti quei momenti, anche apparentemente insignificanti, quegli attimi vissuti insieme in questi otto anni, che per me rappresentano la grandezza non solo del calciatore, ma anche dell’uomo, dell’amico. Sono orgoglioso di avere giocato con Pavel, sono orgoglioso che domenica sia stato il mio capitano».

FRANCESCO DENDENA, SU “I NOSTRI CAMPIONI
La sua azione classica? Strappata la palla con un contrasto o ricevutala dal compagno, Nedved si allunga verso l’esterno di centrocampo. Non c’è un tocco di suola a saltare l’uomo: quello di Nedved è una sfida brutale, un elegante sfoggio di potenza. La bellezza dell’azione tecnica del ceco è nel perfetto dispiegamento della propria forza fisica, che non è celata, trattenuta: è furia, appunto. Stoppata la palla, Pavel avanza su un terreno che sembra sempre troppo corto per la forza che lo sta attraversando. Poi, al limite dell’area grande, di fronte al difensore che lo spinge verso l’angolo, Pavel, il miglior Pavel dico, rientra passando la palla dal piede sinistro al destro, il suo piede naturale. Qualche passo, non più del necessario per distanziare il difensore, e la frangia biondissima si solleva una frazione di secondo; poi Pavel fa partire il suo tiro classico. Teso, netto, pulito. Fortissimo.

“TUTTOSPORT” DEL 7 GIUGNO 2012
Fino a un po’ di tempo fa erano in tanti a chiedermi di tornare a giocare e, vi confesso, che mi ha fatto sempre molto piacere. Adesso è diverso, ma altrettanto bello che la gente mi faccia i complimenti per la squadra, che quindi mi consideri un dirigente. E poi, logicamente, dopo i complimenti mi chiedono di aggiungere dei campioni alla squadra. Ed io cosa rispondo loro? Che abbiamo le idee chiare e non dormiremo di sicuro. Possono stare tranquilli.
Qual è il mio lavoro alla Juventus? Questa domanda la prendo un po’ più larga. Quando uno smette di giocare, deve trovare la sua dimensione e non è facile. Non è che puoi partire dicendo: ho giocato vent’anni e so tutto di questo mondo. Col cavolo! Parti da zero e devi imparare tutto. Io all’inizio non capivo dove e come posizionarmi, poi con il passare del tempo ho trovato la mia posizione. Un po’ come mi è successo il primo anno con Lippi che nei primi sei mesi non capiva dove mettermi! (ride) Poi con Marotta, Paratici e Conte ho trovato la mia giusta dimensione, nella quale sento di essere utile. Al campo cosa faccio? Innanzitutto c’è un lavoro che svolgo al campo per dare una mano ai dirigenti e all’allenatore. Seguo la squadra, parlo con Conte e con i giocatori, osservo come si allenano. Solo così puoi capire. Capire cosa? Un giocatore viene generalmente giudicato alla domenica per la partita, ma se vuoi valutarlo seriamente devi soprattutto vederlo in settimana, come si allena, come lavora. Una squadra è composta da venticinque giocatori, devi sapere tutto di tutti, perché di tutti c’è bisogno. E in sede cosa faccio? Riunioni! Tante riunioni! (ride) Dal mercato per la prima squadra alla gestione del settore giovanile ed è un gran lavoro, c’è tanto da fare.
Più difficile fare il dirigente o fare il calciatore? Cosa sia più difficile non lo so. Ho capito che vincere da dirigente provoca le stesse emozioni di quando si vince da giocatore. Perché da giocatore sei protagonista in campo, ma da dirigente sei consapevole di quanto lavoro c’è dietro ogni vittoria e di quante persone hanno contribuito, a partire dal presidente che non smette mai di lavorare. A Trieste mi sono emozionato, tanto. Non pensavo di emozionarmi così, ma giuro che mi sono commosso. È una sensazione diversa rispetto alle vittorie da giocatore, ma di uguale intensità.
Come si può evolvere il mio ruolo? Ora voglio imparare più cose possibili. Abbiamo qui un amministratore delegato e direttore generale che ha trent’anni di calcio alle spalle, gli voglio rubare più cose possibili. Vi faccio un esempio: a volte io e Paratici partiamo fortissimi con un’idea, ci gasiamo, pensiamo che sia il massimo. Poi arriviamo da Marotta che ci dice: calma ragazzi, questa situazione l’ho già passata e, come dire, ti aggiusta, ti spiega cosa si può fare e cosa no. Poi a volte capita che invece sia il primo entusiasta delle nostre idee. È bello confrontarsi con persone di esperienza, ti fa crescere.
Com’è lavorare con Agnelli? Bello. Perché lui è uno che lavora tantissimo, ha le idee chiare, per primo dà la dimostrazione che serve sacrificio e applicazione per raggiungere certi traguardi. E poi è un presidente che capisce di calcio. E da quando è un ragazzino che gioca e gioca ancora oggi, sa entrare nella testa dei calciatori. Se è un competente? Assolutamente sì. Si confronta molto con lo staff tecnico e sa sempre tutto quello noi facciamo, anche se logicamente rispetta i ruoli e lascia a noi certe decisioni. Dice: «Questo lo dovete decidere voi, perché siete più attrezzati di per farlo».
Dopo l’addio di Del Piero, io e Buffon siamo gli juventini più anziani? Significa che dobbiamo portare avanti i valori della juventinità. Quelli che ho vissuto io fin dal primo giorno. Quando sono arrivato ho sentito un profumo che non so spiegare, è qualcosa che ha a che fare con il nostro DNA e non si respira altrove. Il mio compito e quello di Gigi è spiegare questa cosa ai più giovani e a chi arriva.
La svolta di Conte è stata più tecnico-tattica o psicologica? Cinquanta e cinquanta: perché dal punto di vista tattico è stato grandioso nel cambiare quando si è reso conto di avere in rosa un giocatore di livello mondiale, Vidal, ed ha rivoluzionato tutto. Ma dal punto di vista psicologico ha svolto un lavoro pazzesco su dei ragazzi che venivano da annate negative ed ha fatto fare un salto di qualità notevole a tutti. In questo, devo dire, gli ha dato una mano lo Stadium, perché lì è tutta un’altra cosa. Io ero certo che quell’impianto ci avrebbe portato dei benefici nei risultati e tutto si è avverato.
Se ho mai pensato cosa avrebbero fatto le Juventus in cui ha giocato io nel nuovo stadio? Sì, sempre. L’ho immaginato tante volte. E penso che più che in campionato, ci avrebbe dato qualcosina in più in Champions. Penso spesso a quel pareggio con il Liverpool e a quell’altro pareggio con l’Arsenal al Delle Alpi nelle stagioni di Capello. Le avessimo giocate allo Stadium, in quell’ambiente, le avremmo vinte di sicuro. La squadra di Capello era la più forte d’Europa. Ovviamente non siamo riusciti a dimostrarlo vincendo la Champions, ma abbiamo vinto in Italia, anzi abbiamo sempre stravinto. E comunque quella rosa era la migliore. Mi dispiace per la Champions, forse giocando bene come la Juventus di Conte avremmo vinto anche la “Coppa dalle grandi orecchie”.
Nella prossima stagione ricomincia la caccia alla mia ossessione? Solo toccarla mi darebbe un’emozione. Non importa se da dirigente. Sarebbe la soddisfazione più grande.
Se la Juventus sarà competitiva in Champions? Se dovesse esprimersi ai livelli di quest’anno farebbe già una bella strada. Di questo sono convinto perché ho sempre confrontato il gioco di Conte con quello che veniva espresso in Champions ed ho sempre pensato che non ci fossero grandi differenze. Certo, l’anno prossimo ci saranno tre fronti: il campionato, la Champions, la Coppa Italia, quindi dobbiamo rinforzarci. Abbiamo una base molto solida, ma dobbiamo aggiungere dei pezzi. È un lavoro teoricamente più facile, ma in realtà è molto difficile perché stavolta dobbiamo prenderne pochi ma buoni e non possiamo permetterci di sbagliare.
Se cerchiamo giocatori con esperienza in Champions? No, non necessariamente. Stiamo cercando dei giocatori che siano forti e che stiano bene nel nostro ambiente. Non ha importanza se hanno già giocato la Champions, l’esperienza la faremo insieme. Se è vero che nella selezione stiamo scartando chi non rispetta certi parametri comportamentali? In linea di massima sì, ma credo anche che un ambiente molto sano, come il nostro, possa anche permettersi di gestire una testa calda se dovesse portare un contributo tecnico molto importante. La testa gliela aggiustiamo noi.
Se mi sono mai immaginato come allenatore? No, sinceramente non ho ancora avuto occasione di pensarci seriamente. Ho preso un anno sabbatico quando ho lasciato, poi mi sono incontrato con Agnelli ed ho deciso di iniziare questa strada.
Se è dura competere con club come il City sul mercato? Sì è dura. E non solo perché i City, i Real o il Barcellona hanno un budget molto più ampio per acquistare i giocatori, ma hanno pure un fatturato quasi doppio del nostro per pagare i loro ingaggi. Ma attenzione, non è sempre solo questione di soldi. Guardate com’è andata l’anno scorso: non è stata facile convincere dei campioni venire a Torino, eppure. Come si fa strappare un giocatore al City o al Real? Bisogna essere chiari con i giocatori, spiegare bene il progetto. Abbiamo la forza che abbiamo vinto, che partecipiamo alla Champions con la volontà di esserne protagonisti, che abbiamo il nuovo stadio. Queste sono cose che parlano a nostro favore, poi ce ne sono altre a nostro sfavore: il momento del calcio italiano, per esempio, non è facile, il campionato si gioca in stadi non adeguati. Ma io so come ragiona un giocatore, quindi riesco a entrare nella loro testa e qualche chances ce l’abbiamo. Sono fiducioso.
Posso dire che è un mercato difficile, ma ci stiamo lavorando e abbiamo fatto una valutazione complessiva per capire dove intervenire. I tifosi devono stare tranquilli, la squadra c’è. E c’è tutta la società che ha voglia di migliorarla. Nonostante le difficoltà, la miglioreremo di sicuro. Ma piuttosto che dovermi rimangiare qualcosa a fine mercato, preferisco mantenermi basso. Non voglio promettere cose che non si avverano. Io sono il primo a volere una Juventus con undici fenomeni com’era nel 2005-06, però dobbiamo stare tranquilli. Niente promesse, tranne una: tifosi, state tranquilli, sul mercato non dormiamo. Abbiamo fatto uno step e ora vogliamo migliorare. L’obiettivo ora è, inevitabilmente, la Champions.
Se io ho mai pensato di giocare negli Stati Uniti, a Dubai o in Cina? No, quando ho smesso Mino Raiola, il mio procuratore, voleva spingermi all’Inter. Era la cosa più seria e voleva chiudere lì. Si era praticamente installato a casa mia per un paio di settimane per convincermi. Alla fine l’ho cacciato! (ride) E pensate che ancora adesso mi rinfaccia i soldi che gli ho fatto perdere con quel rifiuto. Ma dai! Mi ci vedete con la maglia dell’Inter?