Gli eroi in bianconero: Vinicio VERZA

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
01.11.2021 10:30 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Vinicio VERZA
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«Quando gioco con la maglia bianconera vengo rapito dall’esaltazione. La mia unica preoccupazione è quella di essere utile ai compagni, le soddisfazioni personali vengono dopo quelle legate al collettivo. Voglio essere all’altezza dei colori che vesto: consapevole che non è facile, perché la Juve è il massimo. La Juve ti offre tanto, ma ti chiede, giustamente, di essere degno della sua tradizione e del suo stile. L’influenza della Vecchia Signora non si arresta al terreno di gioco, ma concerne altri aspetti, anche extracalcistici. Alla Juventus non è assolutamente sufficiente fornire lo stesso tipo di apporto agonistico e comportamentale che potrebbe risultare graditissimo in altri club. Alla Juventus occorre tendere alla perfezione, perché la Juventus tende alla perfezione».
Nato a Boara Pisani (Padova) il 1° novembre 1957, comincia a mostrare le sue doti al termine della Scuola Media (Vigliano Biellese) quando, trasferitosi a Borgo San Martino in quel di Casale Monferrato, gioca prima nel San Carlo e in seguito nella Junior.
Molti osservatori restano colpiti dalla sua bravura, ed è la Juventus a ingaggiarlo, accogliendolo tra gli Allievi di Viola, i Beretti di Grosso per trovare degno inserimento nella Primavera: «All’epoca, guadagnavo 25.000 lire al mese, ma dovevo regolarmente restituire 5.000 lire per le multe che la società mi dava, per le marachelle che combinavo con Marangon e Marocchino. Niente di grave, ovviamente; magari, marinavamo la scuola e facevamo tardi, perché attratti da qualche bella ragazza».
Il tempo passa e giunge il momento di una diversa maturazione, passando attraverso esperienze più complete; insieme a Paolo Rossi, raggiunge Vicenza per farsi le ossa che, proprio in quell’anno, riprende il suo posto fra le grandi della Serie A. Rientra a Torino, integrato nell’organico della squadra titolare, nell’estate del 1977.
«Meraviglioso è stato l’esordio al Comunale, ero imbarazzato per quello che mi attendeva, temevo di venir meno alle aspettative dei tifosi della curva Filadelfia. Dopo l’infortunio di Bologna, temevo di non farcela più a guarire e giocare, avevo esempi di tanti giocatori che avevano dovuto scrivere la parola fine alla carriera e mi disperavo. Non mi preoccupavo tanto per il posto in prima squadra, quanto per la carriera nella quale volevo dare tanto, tutto me stesso per la mia Juventus».
Giocatore di buon talento, in possesso di stile e di ottima tecnica individuale, sa andare a bersaglio con tiri di rara precisione.

Buonissimo centrocampista, con qualche limite di personalità, il buon Vinicio lascia la firma sullo straordinario scudetto 1980-81, nella decisiva partita della penultima giornata (a Napoli); subentrato a Marocchino, Verza effettua al 64’ il tiro che, deviato dal napoletano Guidetti, finisce alle spalle di Giaguaro Castellini, regalando alla Juventus due punti che ne valgono sei.
La Juventus come maestra di vita: «Ho imparato tante cose e tante ne imparerò; quando gioco voglio esprimere sempre nuovi aspetti della mia personalità guardandomi con occhio critico e, devo ammettere, che non sempre tutto è andato liscio come l’olio, ma ho anche avuto la soddisfazione di essermi sentito determinante in alcune azioni da goal. Se sono stato in grado di far perforare la rete avversaria, ebbene, quella segnatura mi ha dato lo stesso immenso piacere che avrei provato se la palla l’avessi calciata io stesso alle spalle di Castellini o di Terraneo».
Il ruolo ricoperto: «Sono un giocatore eclettico e la prova l’ho data tra le file del Lanerossi ricoprendo quel ruolo che a molti piace indicare con la parola jolly. A me, personalmente, importa una sola cosa: giocare, ho desiderio, voglia e necessità di giocare perché intendo dissipare ogni dubbio sul mio rendimento; dalla panchina o dalla tribuna, posso solo dar prova di maturità accettando disciplinatamente gli ordini e le direttive del Mister».
Nella Juventus, chiuso dai vari Tardelli, Benetti e Furino, si ferma per tre stagioni: totalizza 60 presenze, realizzando 11 goal e contribuendo agli scudetti 1978 e 1981 e alla Coppa Italia 1979.
Nell’estate del 1981 è ceduto al Cesena, poi si trasferisce al Milan: «Andai al Cesena, perché voluto da Gibì Fabbri, che mi faceva giocare con il numero 5, definendomi il nuovo Falçao; così, mi ritrovavo a dover marcare gente come Tardelli e Bagni. Che fatica! A metà campionato, subentrò Lucchi e passai velocemente dalla polvere all’altare. All’ultima giornata di quel torneo incontriamo il Milan, a San Siro; sono espulso per aver picchiato Novellino e mi becco 4 giornate di squalifica. Ma, ironia della sorte, l’anno successivo sono acquistato proprio dai rossoneri. Certo, non sono mai stato un bell’esempio per i giovani!».
Dopo un triennio in rossonero approda per la stagione 1985-86 al Verona, dove lo attende il compito di far dimenticare Fanna, anche lui ex bianconero.
Un ultimo campionato con il Como e poi il ritiro, a soli 31 anni. «In quel calcio non mi riconoscevo e non mi divertivo più; non era una questione di stress, con tutti i soldi che danno ai calciatori, è comico addurre a certe giustificazioni. Ma a Como, dopo una partita proprio con la Juventus, mi ritrovai immeritatamente fuori squadra, nonostante dei trascorsi di buon livello; la cosa mi diede parecchio fastidio, come il prolificare degli avversari che scendevano in campo con il solo scopo di picchiare. Dissi basta una volta per tutte e senza rammarico».