Gli eroi in bianconero: Roberto TAVOLA
Un gol davvero indimenticabile, da favola – scrive Maurizio Tarnavasio su “Juventus Story” del giugno 2000 –; un gesto atletico di rara bellezza che rimarrà per sempre negli annali della storia del calcio, anche se il nome del suo autore forse è già stato frettolosamente dimenticato. Sveliamo subito l’arcano. È il 28 settembre 1983 e la Juve è di scena a Danzica contro i polacchi del Lechia. Sul 2-0 a favore dei bianconeri, Trapattoni manda in campo il cavallo di ritorno Roberto Tavola, per la terza volta a Torino dopo la positiva esperienza con la Lazio. «Dopo dieci minuti provoco un calcio di rigore e me ne dispero; pochi istanti più tardi mi spingo in avanti e, su un cross di un compagno, colpisco al volo di sinistro da fuori area in maniera impeccabile. Ne scaturisce un missile imparabile che lascia di stucco il portiere avversario».
Il giorno dopo la rete di Tavola è premiata con l’Eurogol, prestigioso riconoscimento che allora era attribuito alla più spettacolare marcatura realizzata nel mercoledì europeo. «Una soddisfazione enorme e indimenticabile per chi, come il sottoscritto, ha certamente raccolto meno del dovuto».
Come dar torto al quarantaduenne centrocampista comasco di scuola atalantina che, nonostante le 12 presenze con la Nazionale Under 21, si è eclissato troppo presto dal calcio che conta lasciando di sé soltanto un tiepido ricordo? «Sono nato come mediano ma, una volta approdato alla Juve, il Trap mi impostò come terzino sinistro in quanto, pur credendo nelle mie qualità, si era accorto che il centrocampo bianconero era prerogativa di troppi campioni; ed io ero un giocatore di quantità che si manteneva sempre su un discreto standard di rendimento, anche se usavo il destro giusto per correre. Pur non essendo grintoso e neppure cattivo, cercavo di non mollare mai l’avversario di turno. Il più grande difetto? Nella vita, come nel calcio, sono sempre stato incapace di mordere: quando, a soli 22 anni, arrivai a Torino con ottime prospettive, non mi resi conto di essere in grado di confrontarmi con i vari Cabrini, Gentile, Tardelli, Cuccureddu, Causio e Bettega. Avrei dovuto essere più sfacciato. Invece mi rassegnai, non so perché, alla parte del rincalzo. Il carattere non è mai stato il mio punto di forza».
Nelle prime tre partite del campionato 1979-80 a Tavola fu assegnata addirittura quella maglia numero 10 che in precedenza era stata di Capello e Benetti. E Roberto non sfigurò. Poi, dopo un po’ di panchina. «A un certo punto iniziai senza motivo a farmela sotto; quindi andai militare, e questa concomitanza contribuì a rendermi ancora più insicuro. Quando finalmente ripresi fiducia nei miei mezzi, mi spaccai un menisco: quello che doveva essere per me l’anno della consacrazione si rivelò invece un mezzo fiasco».
Dopo una stagione in A con il Cagliari, Tavola è richiamato una seconda volta alla Juve. «Ero in prestito, per cui mi toccava ubbidire. Il fatto è che ogni volta che tornavo, prendevo sempre meno soldi. Per motivi vari, sia nel 1981-82 sia nel 1983-84 ho giocato davvero poco, ma ho imparato moltissimo. Anche se ero sempre di cattivo umore, perché le cose non andavano come volevo io. Però, grazie al cielo, qualche soldo l’ho guadagnato».
Anche se, inutile negarlo, le cifre che giravano nel mondo del calcio una quindicina di anni fa non erano nemmeno lontanamente paragonabili a quelle attuali. «Nel corso della carriera mi sono preso qualche piccola soddisfazione; ma il calcio che ora pratico per puro diletto mi appassiona più di un tempo. Di certo però i 13 anni di professionismo non mi hanno reso ricco: allora guadagnavo circa il triplo di un impiegato di buon livello, mentre ora i miei colleghi incassano come ridere cifre anche di 50 volte superiori. Tra l’altro all’epoca, salvo casi rarissimi, andavano di moda i contratti annuali, per cui chi non rendeva come richiesto dalla società fanno successivo era costretto a cambiar aria senza aver possibilità di scelta. Poi devo anche ammettere che mi è sempre piaciuto vivere bene, e non ho mai avuto la mentalità della formica».
Dopo aver gestito per otto anni una boutique in pieno centro, Tavola, che si è ormai definitivamente stabilito a Torino («Anche se ogni volta che mi trovo a venti chilometri dalle mie montagne e dal Lago di Como mi viene la pelle d’oca», confessa) continua in qualche modo a interessarsi di abbigliamento. Ma il suo anelito è quello di rientrare nel calcio dalla porta principale. «Ho il patentino da allenatore di terza categoria, e presto dovrei iscrivermi a quello di seconda. Per ora ho guidato al massimo squadre di Promozione, e questa esperienza mi ha arricchito non poco; certo, non è facile insegnare la tecnica ha chi ha più di vent’anni e un difficile rapporto con i fondamentali, però a livello tattico si può lavorare con soddisfazione. Così mi diverto a far finta di essere un trainer vero: le mie squadre si allenano almeno tre volte alla settimana e praticano il 3-4-3 con buoni risultati. Dove vorrei arrivare? Almeno in C2 o nel campionato nazionale Dilettanti, anche se so che non sarà facile. È troppo tempo che sono fuori dal giro; e poi, salvo rare eccezioni, non ho mai coltivato rapporti con gente del mio ambiente».
E, infatti, pur frequentando ancora, quando gli è possibile, gli stadi, gioca a calcio con chi gli capita. Meglio se si tratta di amici privi di un passato come il suo. «A differenza di altri non mi sono ancora dato al calcetto, finché il fisico mi sorregge. Poi continuo a essere tifoso della Juve, e la seguo con continuità in Coppa e negli allenamenti: purtroppo la domenica mi è impossibile andare allo stadio, perché sono impegnato con i miei ragazzi. Gli amici? Pochi ma buoni, anche se sono davvero poche le occasioni per incontrare i vari Prandelli, Marocchino e Fanna, mentre è molto più facile coltivare rapporti con illustri sconosciuti che però sanno darmi moltissimo».
A trent’anni Roberto Tavola era già un ex. Dopo l’ultima parentesi in bianconero per lui si aprirono prima le porte della Terza Serie (Avellino, Reggina, Spal, Catanzaro, Ischia) e poi l’Interregionale in quel di Asti. Un curioso cammino professionale, il suo. «Scesi in C pur di giocare ma Angelillo, l’allenatore degli irpini, mi spedì sin da subito in panchina. Fu una grossa delusione, dalla quale non mi ripresi più. Il carattere mi aveva fregato ancora una volta. A quel punto mi resi conto che sarebbe stato assai difficile risalire e, dopo qualche stagione al Sud, decisi che pur di tornare a Torino avrei smesso di giocare. E così è stato. Se ho rimpianti? Non troppi. Anzi, mi considero un ragazzo fortunato, in quanto ho esercitato per anni una professione bellissima che mi ha portato a vivere a fianco di allenatori e compagni che mi hanno aiutato a crescere anche dal punto di vista umano. Certo, ero proprio un orso: una volta, quando avevo già più di vent’anni, mi chiesero un autografo. Ed io, nel prendere in mano la penna, iniziai a sudare come un pazzo. Mi sembrava impossibile un tale attestato di stima».
Roberto Tavola canta fuori dal coro ancora adesso. Un fatto piuttosto strano nel mondo dei giocatori, quasi sempre totalmente omologati al sistema anche nel dopo calcio.
MARIO TENERANI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 3-9 FEBBRAIO 2009
Istruzioni per l’uso: prendete una figurina degli anni ’70-80, togliete la polvere con un movimento secco dell’indice e il gioco sarà fatto. Ritroverete un volto, dietro quegli occhi spunterà un’anima. Basta cercarla. Noi l’abbiamo trovata, in una Torino da fiaba, bianca di neve, con un silenzio rassicurante in sottofondo. A passeggio, sotto i fiocchi, con Roberto Tavola nel cuore del Parco del Valentino. «Siete proprio sicuri di voler intervistare me? Allora qualcuno si è ricordato che esisto». Non c’è astio nel tono, la sorpresa è autentica. Un uomo senza rancori, dalla serenità contagiosa, per niente scalfita da una vita di salite durissime da scalare, dopo la lieve gioventù spesa al fianco di Platini, Rossi e Tardelli, in una Juve stellare e trapattoniana. Guadagni evaporati, investimenti sbagliati, ora però di nuovo in linea di galleggiamento, più forte di prima. Le luci si sono spente a 31 anni, a Ischia. Carriera magra, pensando alle premesse: Tavola erede di Benetti e Furino. Solo 91 presenze in A con 8 gol (2 e uno in Coppa delle Coppe con la Juventus), poi frammenti di B e C.
Tavola è cresciuto nell’Atalanta ed è arrivato a Torino da Bergamo con Prandelli («Uno dei rari amici che ho ancora in questo ambiente, allenatore straordinario»), Bodini e Marocchino. Parentesi più o meno brevi con Lazio e Cagliari. «Mi è mancato il carattere» continua Tavola. «Non ho capito che la Juve era un lavoro, mentre io stavo in mezzo a quei campioni come in un film». Mediano in campo e nella vita, Lì si che ne ha avuto di temperamento, senza mai smarrire la rotta della dignità. Platini ora organizza i destini dell’Uefa, Tavola l’angolo dei giornali in alcuni supermercati torinesi. Tavola che divora libri e che si commuove a parlare di Platini. Che con pudore ed eccessiva timidezza si chiama fuori dal ricordo di scudetti e coppe («Vincevano loro, io li ammiravo dalla panchina»). E che ammette: «Avrei voluto di più, ma è colpa mia, di questo mio maledetto carattere. Non chiedo mai».
A 51 anni, in fin dei conti, non è cambiato molto: una spruzzata di grigio sui capelli, stessa mascella da marines buono. Sogna un figlio da Paola, la donna che gli ha dato equilibrio dopo un matrimonio durato un mese («Ero troppo giovane») e alcune convivenze turbolente. Se potesse riscrivere la sua storia che farebbe? «Mi comporterei diversamente. E nella Juve ci resterei dieci anni invece di giocare solo 19 partite in 3 campionati».
– Che le è mancato?
«Il carattere. Arrivai da Bergamo nel ‘79, avevo 22 ami. Mi pareva di vivere in un film e tutto era splendido. E per me poi, juventino da sempre, in modo particolare. Ero troppo timido e poco determinato».
– Un esempio?
«Andavo in sede per il contratto pensando di spaccare il mondo e una volta seduto cominciavo a sudare. Boniperti, che aveva un carisma fuori dal comune, mi chiedeva: “A casa tutto bene? I tuoi come stanno? Hai bisogno di qualcosa?”. E intanto mi faceva filmare senza neppure discutere la cifra. Il mese dopo, con il primo bonifico, capivo quanto avrei percepito. Ma alla Juve funzionava così».
– È vero che guadagnavate più con i premi che con l’ingaggio?
«È vero, ma non per me. Il premio partita lo riscuotevano solo coloro che entravano in campo, anche per un solo minuto. All’epoca subentravano al massimo in due. Io era un mediano e se usciva Tardelli entrava il mio amico Cesare Prandelli. Eravamo come fratelli. Cesare, talvolta, sapendo che non avrei preso una lira diceva al Trap “Mister, stavolta faccia entrare Roberto”. Comunque non mi lamento: il mio stipendio era ottimo, certo non paragonabile a quelli attuali».
– Poi che è successo?
«Decisi di smettere presto anche perché ormai più della C non si andava avanti. Stavo con una ragazza che mi convinse ad aprire alcuni negozi di abbigliamento. Un disastro. Fallimento, risparmi prosciugati, una casa in Sardegna venduta. Insomma, mi ritrovai veramente con il sedere per terra e naturalmente la ragazza si dileguò».
– Fu aiutato?
«Non chiesi niente a nessuno. E pensare che in quel periodo c’era Furino nel settore giovanile della Juve, ma non ho bussato neppure alla sua porta. In molti pensavano che, in fin dei conti, non stessi così male, mentre quelli che sapevano, quasi infierirono. Un’altra lezione di vita... Per fortuna spuntò Gianni, un amico fuori dal calcio».
– Che cosa fece?
«Eravamo nei primi anni ‘90 e mi disse che a Torino stavano aprendo alcuni supermercati e che cercavano una persona che curasse l’angolo dei giornali e dei libri. Accettai di corsa; amo troppo lavorare».
– Uno scatto da mediano.
«Stando a casa, mi sentirei umiliato. Ho trascorso 6-7 anni di grandi sacrifici economici, ma adesso sono in pari. Da allora mi sveglio tutti i giorni alle cinque e vado felice a fare il mio mestiere. Verso l’ora di pranzo ho finito. Pronto per ripartire».
– Destinazione?
«Carmagnola: seguo la Juniores e i bambini della scuola calcio. Allenare è la cosa più bella, la auguro a tutti. Ho avuto un privilegio: sudare al fianco di campioni incredibili. Questo patrimonio me lo ritrovo a distanza di 30 anni e cerco di trasmetterlo ai miei ragazzi. In più studio molto le metodologie di allenamento. Oggi è tutto diverso, è tutto più difficile».
– Eppure non è passato un secolo.
«Ma se ripenso ai nostri allenamenti... Torello, al Trap piaceva da matti, corsa sulla resistenza, poi partitella infinita. La parte tattica non era il piatto forte: ci basavamo su una grande grinta e le invenzioni degli “artisti”».
– Più forti voi o i giocatori attuali?
«Questi di oggi. Anche noi avevamo dei “mostri” come Platini, Rossi, Boniek e tanti altri, ma andavamo alla metà dei giri: ora la velocità di esecuzione è raddoppiata. Controllare la palla con questi ritmi è un’impresa. Il calcio del 2000 mi piace molto di più dal punto di vista tattico e anche atletico».
– Preparazione decisiva?
«La mia generazione è stata sfruttata poco: se avessimo lavorato così anche noi, avremmo potuto avere straordinari margini di miglioramento».
– Cosa che le piace meno?
«L’elemento economico. Il business è sicuramente determinante, ma visto da fuori ho la sensazione che la parte umana di questo sport si stia perdendo».
– Come vivevate nella Juve di quel periodo?
«Insieme, in campo e fuori. In via Roma, a Torino, era normale vedere a passeggio Rossi e Platini, magari con qualcuno di noi più giovane. Così come ritrovarsi ogni sera diversa a casa di qualcuno. Scherzavamo e ridevamo sempre. Io abitavo con Prandelli, in via Filadelfia, a cento metri dallo stadio. Un gruppo coeso con un motivatore formidabile come il Trap. E infatti durante la partita... Quei bravi ragazzi si trasformavano in una formazione tosta, dura. Belve affamate di vittorie. Eravamo veramente una squadra “cattiva”. Di rado ho visto giocatori così aggressivi. Un nome per tutti? Tardelli».
– Qualche ricordo?
«Tantissimi. Platini guardava a sinistra e scaricava il pallone a destra: immenso. Ma anche l’Avvocato Agnelli. Quando arrivava a trovarci, aveva una parola gentile per tutti. Quella società è stata una scuola di vita e anche certe imposizioni avevano una logica. Capelli corti e jeans vietati quando si doveva andare in sede: l’abbigliamento doveva essere consono al blasone della Juve. Le regole sono importanti».
– Se chiude gli occhi?
«Calcio d’angolo, palla che si impenna al limite dell’area, io che penso e adesso che faccio? Scelgo il sinistro al volo sul palo più lontano. Che gol! Passiamo il turno, andiamo agli ottavi di Coppa delle Coppe (28 settembre l983, Lechia Danzica- Juventus, 2-3, ndr)».
– Mettendo insieme tutto, che sentimenti prova nei confronti della Juventus?
«Le sono profondamente grato per quello che mi ha dato prima, mentre nutro indifferenza pensando a quello che magari avrebbe potuto darmi dopo».
– Con chi è in contatto?
«Con pochissimi ex. Tra questi ci sono sicuramente Cabrini, Fanna e Prandelli».
– E con Boniperti e il Trap?
«Non ho più sentito nessuno dei due, anche se mi farebbe piacere andare da Boniperti. Sarebbe anche giusto. L’ultima volta che ho rivisto tutti è stato in occasione dei festeggiamenti del centenario della Juventus. E mi sono commosso. Mi viene la pelle d’oca ancora al pensiero. Platini e Boniek stavano parlando, mi sono avvicinato e loro mi hanno fatto una grande festa».
– Se dovesse dare un consiglio ai calciatori più giovani, alla luce delle esperienze anche negative che ha vissuto, che direbbe loro?
«Ragazzi state attenti perché quando si gioca a calcio ad alti livelli sembra di vivere in una favola, ma la realtà quotidiana è molto diversa. E prima o poi ti presenta il conto».
– La sua famiglia è rimasta in Lombardia?
«Vivono ancora tutti a Pescate, vicino a Lecco».
– E per finire, qual è il suo prossimo sogno?
«Io e Paola vogliamo assolutamente un figlio. Poi non ci mancherebbe niente. Siamo felici. E a lui un giorno racconterò che suo padre ha giocato con Platini».