Gli eroi in bianconero: Marco TARDELLI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
24.09.2020 10:30 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Marco TARDELLI
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Quando l’avevi davanti – racconta il sommo Caminiti – sembrava un’ipotesi di giocatore con qualcosa di meno. Te lo potevi immaginare a suo agio, tra gli sparati bianchi dei tavoli in quell’albergo di Pisa, o pensarlo commesso in un negozio di scarpe o postino addetto ai servizi celeri, con quel viso smunto infiammato dagli occhi che sembravano camminargli addosso, mai fermi, come lui. Che era così gracile e come penato, Marco Tardelli, cioè uno dei sei fuoriclasse che il francese blasé Platini si sarebbe trovato al fianco in una Juventus destinata a divenire leggendaria.
Quelli erano giorni di calcio torinese e juventino estremamente razionale, fatte le debite eccezioni, che erano appena due, poi sarebbero state quasi tre (con l’eccentrico Marocchino), e cioè Causio detto Brazil e lui. Ma nessuno come Tardelli, che il soprannome se l’era scritto addosso, come quando da un calamaio schizza una goccia o più gocce e subito il quaderno è una macchia sola, e il bambinetto piange. Schizzo Tardelli faceva piangere gli avversari, anche i portieri, e dire che io l’avevo scoperto da terzino di fascia fare i suoi incredibili gol di rapina, a Verona, quel pomeriggio in cui Saverio Garonzi era tornato a casa, e nel suo viso disfatto tra gli occhi pieni di quell’esperienza paurosa, si passava e ripassava una mano rugosa, illudendosi che il suo Verona lo avrebbe consolato, contro quel Como, regalandogli una bella vittoria.
Invece, sul verde prato del Bentegodi, in un pomeriggio che aveva tutte le svenevolezze dell’autunno, il Como aveva vinto, soprattutto per merito di Tardelli e l’osservatore della Juventus che era Cestmír Vycpálek, ne era rimasto incantato.
Quell’ipotesi di giocatore, guardato nel fisico, si trasformava in campo in una freccia di giocatore, dai piedi buoni, dalle intuizioni repentine anche nei movimenti senza palla; si capiva che nel ruolo di difensore esterno assolveva a una parte di un copione abbastanza vario. Quando avanzava, cioè schizzava da parte a parte, l’avversario costretto a rincorrerlo senza pigliarlo mai, si trovava la lingua in gola.
La Juventus aveva pescato il tipo giusto per fare quagliare le intese smarrite un anno prima; il campionato di grazia 1976-77 le avrebbe restituito ogni avere con gli interessi.

La più razionale Juventus dell’era Boniperti inseriva nel contesto il più trascedentale scattista e incontrista d’Italia, equilibrando il filtro di centrocampo affidato all’alluce d’acciaio di Benetti e all’indomito sprint tattico di Furino, con il risultato di varianti inedite per l’attacco prestigiatore di Bettega e martellatore di Boninsegna.
Vincendo scudetti e Coppe, Marco Tardelli non poteva ancora essere soddisfatto. Una perenne inquietudine gli ardeva negli occhi, sposo e padre senza avere molta serenità, cercava in campo ogni più ardua gioia, la scovava addirittura con i suoi guizzi felini, attraverso gol pazzeschi e irresistibili. Divenne così alla base della Nazionalbearzottiana, con pipa (le pipe egregie di quegli anni erano due, la più illustre apparteneva al Vecchio Pertini, Presidente con la passione dei Media), vi avrebbe giocato 81 volte, fulcro di quel contropiede manovrato schizzante (appunto Tardelli) esordendovi come terzino destro il 7 aprile 1976 nell’amichevole torinese vinta per 3 a 1 sul Portogallo.
Bearzot e pipa, a quel punto, sedevano ancora in compagnia di Nonno Bernardini, ultime lezioni al furlan che sarebbe riuscito con la sua facondia e versatilità psicologica a fare della Nazionale un pugno di uomini con un ideale. Come definire altrimenti la squadra che tra giugno e luglio dell’82 andava a farci rivivere le imprese dei padri che con prosa emozionante Emilio De Martino ha raccontato in un libro degno di essere conosciuto dai ragazzi: cioè Carovana azzurra? Quella domenica di luglio dell’82 fu di sofferenza, prima del tripudio, nello stadio che era di un pallore svenato dalle luci (anche quella chiarissima del cielo, annottò tardissimo), Tardelli segnò il gol più bello, famoso e importante della sua carriera, schizzando in caduta libera per scaricare il sinistro sul pallone del secondo gol, radente, irridente, per Schumacher. E subito la corsa liberatoria per il prato, a pugni stretti, gridando la gioia, come si può gridare con tutto il fiato del corpo e dell’anima, quasi a voler chiamare a testimoni presenti e assenti dell’impresa compiuta, per se stesso, per tutti, anche per la pipa di papà Bearzot e, perché no?, di nonno Pertini.
Quelli erano giorni: un’ipotesi di giocatore, con qualcosa di meno, campione del mondo. L’irripetibile, insostituibile Marco Tardelli.