La capacità umana prima del talento

28.04.2016 14:15 di  Caterina Baffoni   vedi letture
La capacità umana prima del talento
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© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport

Perché squadra più organizzata, più solida, tatticamente e mentalmente, in definitiva più forte non c'è in Italia. La norma dice che vince la migliore: e quindi non c’era nulla di strano nel risultato che stava maturando a Firenze (anche a Monaco di Baviera prima degli ultimi 3 minuti). Ecco, nel day after che consegna una delle Juventus più belle  degli ultimi anni, ci si deve tenere stretta questa valutazione: la Juventus non stava compiendo un’impresa, ma semplicemente il suo lavoro. La meraviglia e lo stupore di cinque scudetti consecutivi sta "solo" negli occhi di chi osserva.

Cosa che, in fin dei conti, definisce meglio possibile l’altissimo livello a cui sono arrivati i bianconeri. Il raggiungimento della finale di Berlino lo scorso anno, la quasi impresa contro il Bayern di Guardiola e il quinto tricolore di fila. Ora, tutto questo va visto in un’altra ottica: non l’exploit isolato di una squadra formidabile, ma il posizionamento di una squadra di diritto tra le big d’Europa. Che, certo, avrà anche un gap in termini economici con i top club del continente, ma non così visibile una volta scesi i protagonisti in campo. Quando la Juventus mette così tanta paura al Bayern, lo stesso avversario che quattro anni prima ne aveva fatto emergere i massimi limiti e difetti, significa che quel percorso di crescita è stato compiuto: adesso, occorre semplicemente mantenere quegli standard, magari con un ritocco in più per perfezionare una rosa (ammesso che sia possibile). La straordinarietà della prova dei bianconeri, visti anche a Firenze, sta nella sicurezza esibita anche sul terreno dove i bavaresi avevano vinto nove delle ultime nove partite di Champions, con una media di quattro gol segnati a partita.

La grande serata di Monaco la Juve ha iniziato a costruirla già a Torino, da quella rimonta che nessuno, men che meno il Bayern, si aspettava. Il 2-2 dell’andata non regalava alla Juve una posizione di comodità in ottica qualificazione, ma ha minato le certezze di Guardiola. Lo dice, per esempio, l’inconsueto nervosismo di Pep nel post partita di Torino, ricordate?

Ecco: togliere sicurezze al Bayern. Questa è stata la chiave di lettura della stagione bianconera. Certo, con una probabile qualificazione staremmo a parlare di epopea del gioco juventino, ma un passo alla volta. Così si costruiscono i grandi e gloriosi successi. 

 La Juve, in quella fredda notte tedesca, ha dominato per due terzi di partita sfiorando più di una volta il 3-0 che avrebbe chiuso definitivamente il discorso qualificazione, ha dispensato una lezione di tattica, mentalità e coraggio che davvero poche squadre in Europa possono permettersi di esibire. La Champions è finita troppo, troppo presto per la Juve, così come la Champions ha perduto troppo presto una delle sue migliori interpreti. Ma sarà proprio questo l'input in più che permetterà ad Allegri e compagnia di avere come grande obiettivo quello di alzare la coppa dalle grandi orecchie, perchè la consapevolezza di essere all'altezza di certi traguardi, è stata pienamente assorbita da tutti a Vinovo.

Tutto deve ripartire anche dallo scudetto dell’incredulità, perché vinto da una squadra che dopo dieci giornate era dodicesima in classifica, a -11 dalla vetta, capace di risalire grazie a 24 vittorie in 25 partite. Dovrebbe, ma lo è solo in minima parte, perché quella squadra è la Juventus, la stessa che ha vinto gli altri quattro scudetti, che ha raggiunto livelli altissimi di identità di gioco e compattezza.

Però, non va minimizzato il significato di questo scudetto, che resta un’impresa sportiva eccezionale. Pur considerando che, con le premesse fatte, il titolo più incredibile può essere considerato il primo, quello arrivato in volata finale contro il Milan dopo due settimi posti di fila (e senza sconfitte per tutto il campionato). O anche quello dei 102 punti da record di due anni dopo. Però. questo scudetto dice qualcosa di più: la Juventus sa cambiare pelle, sa sperimentare senza subire scossoni. Cambi di allenatore, rose rinnovate, approcci diversi: è la capacità di essere impermeabili alle varie gestioni tecniche e ai necessari ricambi generazionali. Ma la Juventus ha qualcosa in più: non necessariamente questo dominio si regge sulla forza economica e la convinzione delle capacità umane dei propri uomini.

Marchisio e Pirlo a Lione, nel 2014. (Jeff Pachoud/AFP/Getty Images)

Abitudine alle vittorie, uomini chiave, profondità della rosa, camaleontismo e fiducia nelle proprie forze: sono alcuni dei motivi del gap ancora molto ampio tra la Juve e le rivali italiane. E una mentalità vincente, quella che da subito è riuscito a trasmettere Conte e che Allegri ha incredibilmente rafforzato. È lui il primo artefice del dominio bianconero, l’uomo che ha raddrizzato una squadra che sembrava ormai troppo sazia. 

Ovviamente, Conte aveva bisogno di un successore all’altezza, e Allegri ha mantenuto le attese, con pazienza e umiltà. Lo ha fatto non rispondendo mai, in nessun modo, alle critiche che gli sono piovute soprattutto all’inizio delle due stagioni bianconere, e fuggendo ogni tipo di protagonismo: ha messo al centro la squadra, nonostante il suo lavoro di cucitura, dopo lo strappo improvviso di Conte, sia stata un’impresa titanica. Non ha avuto bisogno di imporsi, non ha cercato di mettersi in competizione con il suo predecessore: sono doti umane, ancor prima che professionali, molto rare.

Solo in questo modo, abbinando alla mentalità vincente la capacità di farsi forza a vicenda, si costruiscono stagioni e scudetti così. Ed è da qui che parte il discorso di tutta la mentalità vincente su cui la Juve si basa: prima di tutto le risorse umane. La persona prima del giocatore. La capacità umana prima del talento.