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Proposta di padre Giovanni Pross, missionario tifoso juventino: “Un angolo per Dio allo Stadium. Fede calciatori a volte ‘scaramantica’. Striscioni e cori offensivi? Ledono dignità umana”

14.04.2014 11:30 di  Redazione TuttoJuve  Twitter:    vedi letture
Fonte: Intervista realizzata da Francesca Simonelli
ESCLUSIVA TJ - Proposta di padre Giovanni Pross, missionario tifoso juventino: “Un angolo per Dio allo Stadium. Fede calciatori a volte ‘scaramantica’. Striscioni e cori offensivi? Ledono dignità umana”

La redazione di TuttoJuve.com ha intervistato padre Giovanni Pross, sacerdote missionario che da quasi 30 anni vive in Congo, dove gestisce una comunità che accoglie bambini, occupandosi delle loro necessità e offrendo loro la possibilità di vivere una vita dignitosa e, perché no, felice. Padre Giovanni, da sempre tifoso della Juventus, ha contattato la nostra redazione per fare una proposta particolare al club bianconero…

Da quanto tempo vive in Congo?

“Da quasi 28 anni. Vi sono arrivato nel gennaio 1987, dopo dieci anni di esperienza come sacerdote nella periferia di Milano, dove, per conoscere i ragazzi, ho allenato squadre di primi calci e di pulcini”.

Come riesce a seguire la Juventus da tanto lontano?

“Nei primi anni era molto difficile. Con una radiolina si captava il 20% della cronaca, e ci si affidava ai risultati che un canale televisivo francese dava al lunedì. Ora è più facile. Con internet e col telefono ci sono possibilità maggiori. Un amico di padre Yemenita e di madre congolese, fanatico juventino fin dalla sua infanzia (viveva in un collegio tenuto da padri italiani tra i quali c’era un padre juventino), contribuisce a pagare l’abbonamento DSTV per vedere le partite della Juve. Se tolgono la corrente mi informo con uno dei miei cugini in Italia via sms”.

Come e quando nasce la sua passione per la Juventus?

“Nasce da bambino, con un entourage di cugini juventini: non potevo tifare per nessun’altra squadra”.

Quali sono le vittorie che ricorda con più piacere?

“Quel 9-1 contro l’Inter. Ma poi il 4-1 col Milan a San Siro, col goal di tacco di Bettega. La vittoria con la Lazio all’ultima giornata (campionato ‘66-‘67) con la simultanea sconfitta dell’Inter a Mantova per lo scudetto di Heriberto Herrera. La vittoria in Champions contro l’Ajax ai rigori…”

Quali giocatori e allenatori bianconeri porta maggiormente nel cuore? Perché?

“Dalla mia infanzia: Nicolé, Boniperti, Charles, Sivori, Stacchini, Mattrel e Anzolin: erano la prima Juve che conoscevo. Poi, la squadra di Trapattoni: Zoff, Cabrini, Gentile, Scirea, Tardelli, Platini, Boniek, Bettega, Rossi, Causio, Furino, Morini… Era la Juve della mia giovinezza. Infine Del Piero, Buffon, Marchisio, Chiellini, Pirlo… Insomma, la Juve attuale. Del Piero e Buffon restano quelli che più porto nel cuore. Senza far torto agli altri, per me questi due giocatori hanno mostrato e stanno mostrando la loro umanità, oltre alla loro professionalità. Non hanno mai provocato polemiche inutili, sono un esempio di uomini e di giocatori. Per quanto riguarda gli allenatori, sono legato a Picchi, Vickpalek, Trapattoni: uomini soprattutto, e poi competenti nel loro mestiere. E’ chiaro che anche Lippi e Conte hanno lasciato in me il segno.”

Cosa pensa della Juventus di oggi?

“Non sono un allenatore. Spesso mi lascio portare dal cuore. La Juve di oggi ha bisogno di ricambi forti in tutti i reparti. A fine stagione, quando le partite si moltiplicano e il fattore psicologico incide su certi protagonisti, si vede la necessità di avere sostituti validi. Indispensabili? Tutti! Ho un sogno: vedere Suarez del Liverpool in bianconero. Ci risolverebbe tanti problemi e farebbe reparto da solo. Sono orgoglioso che la Juventus sia una delle squadre più ‘italiane’ del panorama calcistico”.

Come giudica l’atteggiamento abbastanza diffuso tra i calciatori di mostrare la loro fede in maniera spesso molto plateale, anche in campo?

“Giudicare non è la parola giusta, soprattutto in questo campo della fede. Mi domando piuttosto se quei segni di croce, che assomigliano più a gesti ‘scacciamosche’ che a dei segni di fede, siano fatti coscientemente o siano gesti scaramantici. So di qualche giocatore che ha la fede e il coraggio di manifestarla con la vita, ma non fa nessun segno di croce ‘plateale’. Vedo tanti calciatori africani o di origine africana o latino-americana, luoghi in cui la fede è soprattutto religiosità e manifestazione esterna, raccogliersi in preghiera prima della partita (Paul Pogba ne è un esempio). Credo di più a loro, senza voler giudicare gli altri”.

Cosa pensa della gestione del tecnico Conte?

“E’ uno che vuole e che sa vincere, attaccato ai colori bianconeri, sicuro di sé. Credo che sappia gestire lo spogliatoio nel migliore dei modi. Vive il suo lavoro con passione. A volte tuttavia lo trovo in ritardo nei cambi che effettua, e non sempre mi sembrano azzeccati. Ma come gli si può dar torto, visti i risultati? Rispetto il suo lavoro. Gli sono grato per quello che sta facendo e spero rimanga a lungo”.

Sappiamo che ha una proposta da fare alla Juventus per quanto riguarda lo Stadium. Ce ne parla?

“Mi sono trovato all’aeroporto di Parigi Charles De Gaulle, perché avevo 8 ore di attesa per un volo. Passeggiando, ho trovato un grande container, anche carino, con più cappelline riservate alle diverse religioni. Ho passato un buon momento a pregare. Se vado in un ospedale, trovo sempre una cappella. Mi sono chiesto: allo Juventus Stadium ci sarà un angolino per Dio? Lo si potrebbe realizzare con simboli calcistici. Il nostro Papa Francesco ci parla spesso di un Dio che vive le nostre emozioni, che è contento dell’uomo che vive momenti di gioia da condividere con gli altri. Credo che Dio sia felice nel vedere tante persone che si entusiasmano per una vittoria o che comunque vivono con passione il momento della partita. Perché non riservargli un angolino? Anche qualche giocatore, oltre ai visitatori, potrebbe passare di lì e affidare la sua partita a Dio, chiedendogli di aiutarlo a fare spettacolo per la gente. Immagino una piccola stanza, con moquette verde, con piccole gradinate come banchi, un tabernacolo sferico (un pallone) … Ma non sono un ingegnere”.

Nella sua esperienza missionaria, ha avuto modo di constatare l’importanza del calcio, o in generale dello sport, oppure siamo noi Europei a darvi tanto valore?

“Lo sport in Africa è importantissimo. Nei villaggi più sperduti può mancare una scuola, una chiesetta, ma non due paletti con uno spago come traversa. I miei ragazzi spesso si scrivevano il numero e il nome sulla schiena con il gesso. Naturalmente non era il loro nome, ma quello di un campione. Si facevano le righe sulle gambe per indicare i calzettoni… Dopo due minuti il sudore aveva lavato tutto, ma lo spirito del nome e del numero rimaneva in loro. Ovunque si gioca a calcio. Altri sport non sono tanto conosciuti. Purtroppo lo Stato non offre strutture. Noi missionari abbiamo fatto dei bellissimi campi da calcio. Ogni giorno si lotta perché la gente non continui a passarvi in mezzo tracciando sentieri che rovinano l’erba. Nel mondiale del 2006, vinto dall’Italia, stavo vedendo la partita di semifinale giocata dalla Francia. Un mio confratello congolese mi disse che stava tifando per i Transalpini e la cosa mi meravigliò perché di solito non c’è tanta simpatia per la Francia. Mi disse che era costretto a tifare per l’unica squadra africana rimasta nel torneo. In effetti, 8 giocatori su 10 erano di origine africana. Nel panorama mondiale del calcio ci sono sempre più giocatori africani o di origine africana. A mio avviso c’è però qualche lacuna. Mancando delle strutture di preparazione, i giovani credono che basti un dribbling per essere bravi, che l’allenamento non conti tanto, e soprattutto vedono il calcio come forma di arricchimento economico. L’eco dei trasferimenti a suon di milioni li stordisce e nello stesso tempo li illude. C’è una corsa a lasciare il Paese per approdare a squadre europee famose, senza immaginare le difficoltà che ci sono in questo itinerario. Per questo penso che si debba lavorare sulla preparazione di centri sportivi per ‘curare’ certe forme di violenza o di abbandono di tanti ragazzi in zone povere del mondo. Ma mi domando se prima non si debbano costruire scuole o ospedali. Si possono comunque costruire scuole con centri sportivi annessi. La situazione è alquanto complicata. Le racconto ciò che è successo in questi ultimi giorni: Quarti di finale di Champions. Ad ogni goal del Real Madrid sembrava di essere allo stadio: un boato immenso. Questo, la settimana scorsa (3-0 Borussia Dortmund). Per non parlare di Barcellona - Atletico Madrid, con sconfitta del Barça. In città c’era il clima di una vittoria di campionato mondiale. Il mio amico Juventino tornava a casa in moto. I tifosi festanti per la sconfitta del Barça lo fermano e gli chiedono: Barça o Real? Risponde: Juve! Era vestito con la maglia della Juve. Gli hanno detto: puoi andare tranquillo. Purtroppo il calcio è un interesse che sorpassa tanti bisogni molto più urgenti. E’ quasi una droga”.

Come si conciliano calcio e fede, considerando che spesso questo sport è caratterizzato da violenza fisica e verbale?

“Il rispetto dell’altro non è solo un valore della fede, ma soprattutto un valore della persona, indipendentemente dalla sua fede religiosa. Per me è questione di educazione. Nel passato i gloriosi oratori abbinavano lo sport con altre attività volte ad una educazione al rispetto dell’altro. Oggi il fattore economico si è impossessato di tutti i protagonisti: presidenti, allenatori, giocatori, tifosi. Si punta al risultato perché questo è redditizio, e si perde il gusto del divertimento, dell’avere costruito qualcosa insieme, anche nella sconfitta. Quando, da giovane sacerdote, allenavo le categorie di ragazzi fino ai 15 anni, mi trovai a giocare contro l’Inter allenata da Lorenzi (il famoso ‘Veleno’). Alla fine della partita mi fece i complimenti nonostante la nostra sconfitta, e si limitò a dirmi: “Ha tre ragazzini che sono bravi, li tenga d’occhio”. Chapeau!!! Grande rispetto. Durante la stessa partita, alcuni genitori dei miei ragazzi insultavano l’arbitro, mi avevano criticato con violenza per certi cambi, quando sapevano bene che tutti i ragazzi che portavo in panchina avrebbero giocato uno scampolo di partita. L’educazione deve partire dal rispetto del tuo compagno di squadra, dell’allenatore, del tuo ambiente”.

Cosa pensa dei cori beceri e degli striscioni offensivi esposti dalla Curva della Juventus?

“Mi sembra che l’aggettivo da lei usato, ‘offensivi’, dica tutto. Il rispetto per l’altro, per l’avversario, è fondamentale. Chi li espone offende in primo luogo se stesso e la sua dignità di essere umano. Non conosco tuttavia questo mondo di ultras. Le poche volte che mi è capitato di andare allo stadio, sempre per vedere la Juventus, è stato a Verona contro il Chievo. Ci sono andato con i miei nipotini e non c’è stato nessun insulto, anche se nel settembre 2013, il Chievo avrebbe potuto protestare per un nostro goal in fuorigioco”.

 

CHI E' PADRE GIOVANNI PROSS? -  Padre Giovanni Pross, missionario dehoniano a Kisangani (RDC). Nato a Volano, in provincia di Trento (31.08.1951), secondo figlio di una famiglia di 5 fratelli e una sorella. A 11 anni entra in seminario a Trento presso la congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore(Dehoniani). Segue il curriculum normale di formazione. Diventa religioso nel 1969 e sacerdote nel 1977. Prima destinazione: Garbagnate Milanese. Con due altri confratelli inizia un lavoro di ‘missione’ in un quartiere ove non esiste ancora una comunità cristiana e quindi nessuna struttura parrocchiale. Frequenta l’università dello IULM e si laurea in lingue e letterature straniere moderne. Nel 1985 chiede di andare in missione. Parte per lo Zaire(attuale Repubblica Democratica del Congo: RDC) nel gennaio 1987. Prima destinazione (e sarà la sola), Kisangani, nella Provincia Orientale della RDC. Nei primi tre anni insegna Latino, francese e religione. Nell’Istituto intercongregazionale di Kisangani insegna‘Il pensiero sociale della Chiesa’, fino al 2010. Cappellano alla Prigione Centrale. Ha progettato e dirige la Maison St. Laurent e laMaison Ste Bakhita.
Come professore, mi sentivo soffocare nel mio desiderio di realizzare la missione. La Prigione Centrale di Kisangani diventava così il mio luogo di missione. Ho conosciuto le miserie più grandi dell’uomo e ho sentito la mia piccolezza nell’affrontare i problemi di quell’ambiente. Solo l’idea che in ciascuna persona c’è l’immagine di Dio, magari sbiadita o sporcata, mi dava la forza di frequentare quel luogo di sofferenza. Da qui alla prigione dei minori il passo era piccolo. Altre miserie, altri problemi insolvibili. E allora, con p. Gianni, nel 1989, sfruttiamo un vecchio decreto legge per farci affidare i 9 ragazzi detenuti. Volevamo aiutarli a cambiare modo di vivere. Illusione enorme! Dopo un saccheggio generale avvenuto in città ad opera dei militari, i nostri ragazzi si erano procurati un bottino tale da poter lasciare la casa e andare dove volevano. Un anno di tregua, la conoscenza di un giovane, un laureato in psicologia che voleva lavorare in questo campo, un programma che mirava più alla prevenzione che all’assistenza pura, tanta sensibilità e tanta buona volontà, ed ecco la ripartenza, nel 1991 di una attività che privilegiava l’incontro dei ragazzi di strada sul loro territorio, la strada, appunto. Alla base la necessità di scolarizzare questi ragazzi, di avviarli ad una attività che potesse garantire loro un mestiere sul quale campare, l’obiettivo di ricongiungerli con la famiglia e di reinserirli nella società. Nel 2001, spinti da tanta gente che ci domandava di interessarci anche delle ragazze, apriamo un punto di accoglienza in una vecchia officina meccanica. La Croce Rossa Internazionale ci chiede una collaborazione nell’attività di de mobilizzazione dei bambini-soldato, e per due anni passano nel nostro centro 115 ragazzi che hanno abbandonato gli eserciti di diverse fazioni in guerra.
Oggi, la Maison St. Laurent ospita 91 ragazzi e la Maison Ste Bakhita ospita 37 ragazze.
Come è nata questa scelta missionaria?
La mia infanzia. A scuola me la cavavo discretamente. Ero il più piccolo della classe al punto che mi chiamavano gnomo. Amavo molto il calcio. Vivere con diversi fratelli, mi ha allenato alla condivisione, al saper perdonare, a capire che c’è chi può pensare in modo diverso dal mio. La cosa più bella, che ha poi marcato la mia scelta di vita e i miei interessi nella missione, è l’apertura della mia famiglia ai poveri. Quasi ogni giorno veniva un povero che chiedeva di poter dormire nella stalla per una o più notti. Per noi ragazzi era una gioia: sentivamo storie di vita, vedevamo con i nostri occhi situazioni che non immaginavamo, ci sentivamo artefici di un piccolo aiuto nell’ottica del Vangelo: ‘quello che avete fatto ad uno dei più piccoli, l’avete fatto a me’.
La mia vocazione ha certamente radici profonde nella mia famiglia, ma delle figure di sacerdoti in particolare mi hanno marcato ed hanno costituito un elemento decisivo per la mia scelta di vita: i cappellani che sono passati a Volano durante la mia infanzia e adolescenza, e un cugino missionario in Brasile. Quello che mi colpiva della loro esistenza era l’entusiasmo e la gratuità nello stare con noi ragazzi e con la gente. Forti nelle convinzioni morali e religiose, sensibili nelle difficoltà, disponibili all’ascolto e sempre gioiosi.
La mia vocazione missionaria, presente nella mia infanzia come può esserlo qualsiasi sogno di un ragazzino, si è svegliata e ha preso consistenza nei primi anni di sacerdozio a Garbagnate Milanese. Si era formato un ‘gruppo di solidarietà’ che si informava dei problemi del terzo mondo e che si attivava per aiutare dei missionari in opere sociali.
Tutte le informazioni sulla sua missione sul sito http://www.fattipiuinla.it/CongoPross/PrincipaleKisangani.htm