Sotto la lente - Avete voluto Calciopoli? Adesso chiedete scusa!

27.06.2014 00:30 di  Carmen Vanetti  Twitter:    vedi letture
Sotto la lente - Avete voluto Calciopoli? Adesso chiedete scusa!
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© foto di Federico De Luca

Alla fine ha vinto il campo. E' stato il campo, per mano dell'Uruguay, a mettere nero su bianco che il calcio italiano è 'tutto da rifare'.
Quel calcio che nel 2006, non dimentichiamolo, era sul tetto del mondo. Poi otto anni di buio.
Una luce che si è spenta già in quel cielo azzurro sopra Berlino.
Perché a vincere quei Mondiali erano stati quegli stessi calciatori che, secondo il sentimento popolare, i gazzettini-inquirenti e la giustizia addomesticata, avrebbero vinto con dolo due campionati: poi due sentenze hanno chiarito che tutto era stato regolare, ma sembra non interessi a nessuno. Ed è una storia che abbiamo già raccontato.
Il capo delegazione di quei Mondiali azzurri, rifugiato in terra tedesca in prudente penombra rispetto ad una Figc commissarianda, dopo essere salito sul palco dei vincitori (ma i palchi sono il suo habitat preferito, anche quando deve assistere agli exploit di Genny la carogna), alla prima occasione utile si era installato sul trono della Figc.
Per governare, in nome di un'incompetenza pluridichiarata e  di un'etica prescritta come gli illeciti nerazzurri, gli otto anni  che hanno trascinato il nostro calcio dal cielo giù giù sino alle fogne.

Avete voluto Calciopoli? Ed ora tenetevi i cocci!
I cocci di un calcio senza stadi: anzi, con un solo vero stadio, quello delle tre stelle; gli altri stanno sulla carta, nelle pieghe di leggi e leggiucole, nel mondo dei sogni, al massimo in qualche plastico fatto coi lego.
I cocci di un calcio senza campioni, perché i nostri club non sono in grado di competere con quanto è possibile mettere sul piatto nel resto d'Europa, e non solo alle corti degli sceicchi.
I cocci di un calcio senza pubblico, certo poco entusiasta di frequentare stadi scomodi, fatiscenti e pericolosi, per ammirare spesso un calcio di quart'ordine. A meno che non si voglia considerare come pubblico d'elezione la presenza di quelle frange di ultras impegnate in guerre di bande delinquenziali che nulla hanno a che vedere  col mondo dello sport e che purtuttavia riescono a tenere in scacco club e tifosi veri.
I cocci di un calcio campo di battaglia delle televisioni e delle loro faide, asservito persino ai loro orari, perché senza i soldi delle tv avrebbe già chiuso bottega da un pezzo: e che nemmeno questo business riesce a gestire in modo professionale, tra multipli conflitti di interesse e logiche di spartizione del potere.

I cocci di un calcio senza futuro sul campo.
Perché è un calcio senza giovani, che da noi languono nelle formazioni Primavera quando altrove  i loro coetanei già giocano campionati e coppe. E che, una volta raggiunta la serie A, hanno poi paura di misurarsi nei grandi club, e rimangono in formazioni di rango medio-basso, perché lì hanno il posto sicuro: non potenziali campioni in rampa di lancio, ma travet del pallone; e così Gabbiadini (23 anni) e Berardi (20 anni), tanto per fare un esempio di stampo bianconero, rimarranno un altro anno, o forse tutta la loro carriera, in Samp e Sassuolo, mentre un  Pogba, con la sfrontatezza dei suoi 19 anni e una mentalità vincente ignota nell'Italia delle raccomandazioni e del posto fisso, ha  affrontato la sfida di misurarsi in un grande club coi titolarissimi, cui ha soffiato il posto. Pazienza se a trar vantaggio da questo andazzo saranno le altre nazionali. E, mi raccomando, guai a nominare la possibilità di dar vita alle seconde  squadre, non la soluzione a tutti i mali ma un buon ricostituente per i giovani virgulti in uscita dalle cantere: ci sono i campanili da salvare, e pazienza se quelle campane suonano e soneranno a morto.
Perché è un calcio senza il principe dei talent scout, un tale che all'anagrafe fa Luciano Moggi, e che è stato sacrificato sull'altare di interessi incrociati: dalla banda milanese che con una mano guidava gli sbandieratori del weekend e con l'altra intercettava, pedinava e spediva pc in direzione Roma fino quinta colonna torinese che andava in vacanza-trasferta a Marrakech. Ora il mercato del calcio è in mano agli agenti, cui poco cale del calcio e molto delle loro tasche.

Senza futuro sul campo perché senza futuro nelle poltrone.
Certo, Abete si è dimesso. Onestà intellettuale, dice: ne avesse, lo avrebbe fatto molto molto prima; almeno dopo aver letto la relazione di Palazzi sugli illeciti dell'Inter, la prova provata che il circolo della caccia e la sua giustizia addomesticata avevano sbagliato tutto; invece si nascose dietro l'incompetenza; e con l'amico Petrucci mise in scena qualche ridicola pantomima tipo l'elogio dell'etica prescritta coniugata col doping legale e, per finire, un tavolo della pace senza giustizia, che non ha prodotto né pace né giustizia.
Il disastro ormai evidente e una consapevole riflessione sugli errori e gli obbrobri del passato sarebbero l'occasione per cambiare non nomi e figur(acc)e ma strada e logiche. Cambiare un mondo. Qualcosa di cui l'Italia non sembra essere capace, in qualsiasi campo.
Ma dietro al dimesso  c'è solo il vecchio che avanza: coi soliti nomi, come Tavecchio-cuorenerazzurro e Pancalli; e anche Albertini non rappresenta il nuovo, perché corre sulla stessa linea, quella delle nomine politiche. Serve un manager, ma nessuno lassù lo vuole, perché farebbe piazza pulita, aprirebbe gli armadi lasciando cader fuori gli scheletri, di qualunque colore siano. Uno che sappia tener a freno anche le proprie pulsioni: come fece Antonio Giraudo, acceso tifoso granata, quando prese in mano la Juve; quello che non seppe né volle fare Guido Rossi che, da commissario straordinario della Figc, regalò letteralmente alla sua amata Inter uno scudetto altrui.
E servirebbe anche un Moggi, cui Carraro nel 2004 offrì  un posto in Nazionale al fianco di Lippi: "Sa, direttore, lei è un grande conoscitore del calcio italiano e internazionale. Se vogliamo raggiungere traguardi importanti con la Nazionale, nello staff serve uno come lei": Moggi rifiutò, vista anche la particolare contingenza in cui si trovava la Juve rimasta orfana solo un mese prima del Dottore; ma diede la sua disponibilità a collaborare (gratis) con Marcello Lippi, cui lo legava un rapporto di stretta confidenza e fiducia e per i due scambiarsi valutazioni e consigli non fu mai un problema, visto anche che la Juve era la vera spina dorsale della Nazionale (nella finale di Berlino il gruppo azzurro annoverava una dozzina di bianconeri, tra giocatori, staff tecnico e massaggiatori). Ecco... ne sarebbe servito uno così. 
Si è dimesso anche Prandelli: e anche qui non sarà facile individuare un tecnico che sia in grado di fare il selezionatore, ovvero mettere in campo una formazione con una sua logica senza aver avuto la possibilità di allenarla; con un amalgama delicato anche sul piano psicologico, per non ripetere i gravi errori di Prandelli, che hanno portato al momento decisivo con uno spogliatoio spaccato e nervoso, più forte del tecnico e che regolava i conti da sé; con alle spalle anche difficoltà nel rapporto con le società, tra sospetti, gelosie e codici etici, tutti sintomi che denotavano l'inadeguatezza di un calcio al tempo stesso vecchio e immaturo. Servirebbe un professionista valido e con gli attributi, in grado di fare con l'Italia quello che Didì Deschamps ha fatto con la Francia che faticava a diventare grande dopo essersi rialzata dal disastro Domenech.

Sono considerazioni di chi ama il calcio, di chi ha vissuto questi ultimi otto anni con raccapriccio (oltre che con dolore).
Siamo tristi per lo sport che amiamo, per un movimento agonizzante.
Con chi l'ha ridotto così siamo arrabbiati, furenti: le loro facce pseudocontrite non ci toccano, sappiamo che dietro la facciata di circostanza pensano solo alle loro poltrone da ricominciare a mercanteggiare. 
Senza aver mai trovato un sussulto di dignità per chiedere scusa.