Il pallone racconta: LA COREA (parte prima)

Misteri, scandali, polemiche, gioie e dolori. Tutti gli ingredienti che fanno del calcio il "gioco più bello del mondo
17.06.2010 17:13 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Il pallone racconta: LA COREA (parte prima)
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Giovedì 7 luglio 1966 la Nazionale Italiana atterra a Newcastle, proveniente da Copenaghen dove ha battuto per 4 a 0 una rappresentativa cittadina giocando male. L’allenatore Edmondo Fabbri, detto “Mondino” avverte i giornalisti: «Da oggi entriamo in clima di guerra». «Guerra sportiva», aggiunge fiutando l’esagerazione, ma non basta. La frittata è fatta, l’antipasto del terribile Mondiale inglese del 1966 è servito.
La Nazionale ha alle spalle una serie di amichevoli vinte a mani basse: partite facili, d’accordo, ma in passato anche i “collaudi” più accomodanti avevano procurato delusioni e fischi, dunque, le ragioni del pessimo rapporto tra Fabbri e la stampa sono altre. Fabbri è un tecnico stimato, ma non particolarmente prestigioso. La sua massima referenza è di aver portato il Mantova dalla Serie D alla A (avendo in segreteria un giovanotto di belle speranze, Italo Allodi); e, nel maggio del 1962, l’Inter lo prenota in caso di mancato ritorno di Herrera dalla trasferta al Mondiale cileno con la Nazionale spagnola. Herrera torna e per Fabbri sfuma il sogno nerazzurro; ha già un contratto con il Verona, quando il presidente federale Pasquale gli fa una proposta alla quale è impossibile rinunciare: «se la sentirebbe di guidare la Nazionale ???»
È fresca la figuraccia di Santiago e Pasquale vara la riforma della gestione azzurra. Niente oriundi, basta con le improvvisazioni, mai più tecnici a mezzo servizio con le società. Il Commissario unico deve essere un dipendente federale a tempo pieno, con sicurezza di contratto lungo e stipendio al livello di un club. La candidatura Fabbri è approvata, con entusiasmo, anche da Aldo Bardelli, grande firma livornese trapiantata a Bologna, ex tecnico dello staff azzurro ai Mondiali del 1950 in Brasile, amico e consigliere personale del presidente della Federcalcio.
Fabbri è nato a Castelbolognese e vive a Bologna come Pasquale e Bardelli. Gianni Brera punzecchia il trio chiamandolo il “Club del Tortellino”; il tecnico azzurro, a prescindere da colpe e meriti, si trova sotto il fuoco incrociato della battaglia tattico-editoriale che infuria in quegli anni. Da una parte c’è il fronte “difensivista” di Brera de “La Gazzetta dello Sport” e dell’influentissimo “Il Guerin Sportivo”, dall’altra gli “offensivisti” del gruppo Palumbo-Ghirelli, cioè “Corriere della Sera” e “Corriere dello Sport”, Pasquale non si compromette mai, non prendendo alcuna posizione.
Fabbri naturalmente sta dalla parte opposta a quella di Herrera, convertitosi ad un “difensivismo” che sta portando l’Inter sul tetto del mondo. I “breriani” vorrebbero che l’allenatore trasferisse questa tattica in Nazionale. Fabbri, invece. afferma che sarebbe assurdo tentare il gioco dell’Inter senza poter avere né la regia dello spagnolo Suarez, né la velocità in contropiede del brasiliano Jair. La critica “offensivista” lo appoggia e sogna i trionfi di una Nazionale ottenuta dalla fusione di Milan e Bologna, basata su “stilisti” come Rivera, Bulgarelli e Fogli. Fabbri cerca di calmare le acque con piccole concessioni, qualche polemica e finti esperimenti per tre anni. Fino all’aprile del 1965, quando l’allarmante 0 a 0 di Varsavia contro la Polonia impone la decisione definitiva, fino ad allora rinviata: od il gioco “offensivista” con il blocco misto milanisti-bolognesi, od il gioco “all’italiana” con il blocco interista quasi al completo. Rivera intuisce che “Mondino” non ha il coraggio di scegliere, ed esce con una clamorosa intervista, in cui dice che, con Picchi schierato nel ruolo di libero, la Nazionale gioca in dieci.
Si scatena l’inferno, Picchi non ci sta e risponde per le rime, Fabbri decide, allora, di non convocare più il capitano dell’Inter, preferendo Janich, libero del Bologna. Anche Janich è bravo, intendiamoci, e lo è pure Sandro Salvadore che si alternerà con lui, ma non si tratta di valutare il singolo, ma la sua efficacia nel complesso: non a caso, infatti, Facchetti sarà una delle più grandi delusioni del mondiale. Stesso discorso per “Mariolino” Corso: il mancino attraversa un periodo di forma a dir poco straordinario, è il vero cervello dell’Inter, fa girare la squadra come un orologio, ma Fabbri dice che Corso nell’Inter non conta niente, ritiene che giochi bene solo per merito di Suarez e non lo convoca; al suo posto andrà al mondiale Ezio Pascutti, del Bologna. Gli interisti titolari azzurri, si stringono attorno a Mazzola e Facchetti e si improvvisano fini diplomatici per non lasciarsi trascinare in polemiche contro il clan dei milanisti e dei bolognesi. Rivera viene battezzato “abatino”, nel senso di eminenza precoce, fragile ed intrigante; averlo titolare in Nazionale è quasi una sciagura per i “difensivisti”, i quali rinfacciano a Fabbri di aver ottenuto dei risultati non eclatanti: mancata qualificazione all’Europeo 1964, faticosa quella strappata al Mondiale inglese e brutte partite contro squadre impegnative.

A Durham, sede del ritiro azzurro, le telecamere della RAI non possono entrare, niente interviste ai giocatori: il divieto lo ha voluto Pasquale per punire il Canale Nazionale, reo di aver trasmesso un reportage “moralistico” sulle follie del calciomercato. Si ironizza sul “policeman” inglese chiamato a fare da sentinella al ritiro degli italiani, mentre non c’è nessuna guardia al ritiro dei sovietici, posto accanto a quello italiano; nessuno osserva che, al contrario di quella dei nostri, la privacy dei calciatori sovietici non è assolutamente minacciata, perché i giornalisti arrivati dall’URSS sono appena sei (ed una è la moglie del portiere Lev Jashin) ed i tifosi zero. Scoppia il finimondo quando Rivera incrocia i giornalisti in visita al ritiro e, con una battuta infelice, suggerisce: «Portateli a vedere la sala da pranzo». Sandro Mazzola, si dimostra più politico, sentenziando: «Come livello tecnico, il calcio italiano è il primo od il secondo del mondo, forse soltanto il Brasile ci è superiore. Fabbri ??? È l’uomo che ci voleva».
Nel ritiro azzurro la disciplina è rigida, parla solo l’allenatore; quando è l’ora delle interviste, i giocatori vengono caricati su un pullman e portati lontano. Sconsigliato vedere la televisione, anche perché nessuno capisce l’inglese, e soprattutto il calcio. Per le serate sono stati portati dall’Italia una ventina di film, tutti western: «Niente partite» spiega Fabbri, «di calcio ne vediamo fin troppo». Il volenteroso impegno dello staff nelle pubbliche relazioni è vanificato dall’incapacità di gestire eventi ed emozioni, che si manifesta fin dalla sera del giorno 13 luglio, quando l’Italia debutta contro il Cile al “Roker Park Ground” di Sunderland.
Temendo un bis della rissa avvenuta quattro anni prima nel Mondiale cileno, il capo-delegazione Artemio Franchi diffida gli azzurri dal rispondere ad eventuali provocazioni: per fortuna, tutto andrà per il verso giusto, il “pugile” Leonel Sanchez è in campo con responsabilità di capitano. Vinciamo 2 a 0, ma alle interviste che si fanno per le televisioni a circuito chiuso con domande presentate per iscritto, Fabbri risponde in questo modo: «Sono soddisfatto del risultato, non del gioco; non ci siamo volontariamente chiusi dopo il primo goal, siamo soltanto calati di tono, credo per la tensione della rivincita col Cile. Certo, se giochiamo così andiamo subito fuori».
Giocatori arrabbiati per l’inatteso rimprovero, giornalisti sbalorditi, dirigenti esterrefatti. Pasquale entra negli spogliatoi e trova un mortorio: il più cupo é Fabbri. «Su, ragazzi» esorta il presidente federale. «Non dobbiamo mica piangere una batosta. Abbiamo vinto, andiamo a festeggiare».
Pasquale ha saputo di certi mugugni, alfiere il solito “sindacalista” Salvadore, ed annuncia il raddoppio della diaria giornaliera: da 10 a 20 dollari, I giocatori si sentono presi in giro e la notizia non modifica l’umore sempre più depresso dell’ambiente. Quest’aria da funerale dopo la prima vittoria è il segno di una squadra spenta, ancora prima di cominciare a giocare.
Sul banco degli imputati viene messo Gianni Rivera, rivelatosi atleticamente non all’altezza contro il Cile e Fabbri lo esclude dalla seconda partita contro l’URSS, in programma tre giorni dopo sullo stesso campo. Ma le cose vanno ancora peggio: al brutto gioco si aggiunge la sconfitta. Facchetti si addormenta e Cislenko infila Albertosi: potremmo invocare un rigore negatoci dall’arbitro, il tedesco Alfred Kreitlein, ma non serve a niente. Fabbri, stravolto, mormora rassegnato: «Quando un avversario è forte, non c’è che da complimentarsi. Rivera in tribuna ??? Non era partita per lui. Quale errore riconosco ??? Forse avrei dovuto mettere Guarneri secondo stopper, invece di Leoncini, per marcare un certo avversario».
Dopo anni “Mondino” non è più dello stesso avviso: «Macchè, chiunque avessi schierato, non sarebbe cambiato nulla. Tutta la squadra non era in condizione di stare in piedi. Se anche Bertini e Riva (portati in Inghilterra come “turisti” per fare esperienza) fossero scesi in campo sarebbero stati in difficoltà anche loro. E poi si aggiunge il rigore su Mazzola non concessoci». Facchetti conferma: «Contro i sovietici mi tremavano le gambe, non riuscivo a stare in piedi».
Il presidente Pasquale improvvisamente parte, atteso a Roma da un’importantissima riunione del Coni. Il capo-delegazione Franchi sta rinchiuso in albergo a Sunder-land. Burgnich lamenta che «nessun dirigente è venuto a sostenere la squadra, a dirci che cosa possiamo economicamente aspettarci da questo Mondiale». Intanto il C.T. sovietico Morozov avverte: «Attenti ai coreani, con quel continuo movimento ci hanno creato seri problemi. Se non piazzate subito qualche goals, rischiate di avere brutte sorprese». Il selezionatore coreano, Myung Re Hyung, con incrollabile fermezza ripete ciò che va dicendo fin dal primo giorno: «Siamo sicuri di battere l’Italia e di qualificarci».