Gli eroi in bianconero: Gino STACCHINI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
18.02.2024 10:20 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Gino STACCHINI
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«Frequentavo le Magistrali a Forlimpopoli. Il Bologna venne a vedermi giocare tre o quattro volte, mediante l’osservatore Pasti. I rossoblu sembravano molto interessati alla mia figura, ma non mi presero mai, in seguito scoprii che al mio posto il club petroniano aveva reclutato nelle mie veci un altro grande attaccante, Ezio Pascutti. Pascutti era totalmente diverso da me; io ero veloce e amante del dribbling, avevo una buona tecnica; lui era solido, concreto, con un colpo di testa eccezionale. Sul finire della stagione 1954–55, si fece viva la Juventus, grazie all’interessamento del mio allenatore al San Mauro Pascoli, Tosolini: il provino con i bianconeri non fu totalmente convincente. Venni arruolato grazie alle mie abilità di scattista. Al termine del test, ci accordammo per una sfida: dovevo battere Boniperti sui cento metri. Ci riuscii, per tre volte. Così, divenni juventino».
Romagnolo di San Mauro Pascoli (Forlì), classe 1938, Gino Stacchini arriva alla Juventus nell’estate del 1955 e ha in comune con Muccinelli, il suo predecessore, il ruolo di ala e la gioia di vivere dei romagnoli. Rispetto al più anziano conterraneo ha però un grande vantaggio: la Juventus non ha grandi alternative nel ruolo e, con un allenatore come Sandro Puppo che ama i giovani e dà loro piena fiducia, Gino parrebbe avere la strada spianata. Invece, Stacchini fatica non poco a farsi largo, perché un altro giovane, Stivanello è il suo nome, ha più grinta ed è più concreto sotto porta, diventando di fatto il titolare quasi inamovibile della maglia numero undici.
La stagione successiva le cose non migliorano molto per Stacchini, tanto che la dirigenza pensa di cederlo; ma il nuovo allenatore, lo slavo Broćić, gli concede la propria fiducia, apprezzando la sua imprevedibilità, la capacità di inventare sempre e comunque qualcosa, anche a rischio di qualche figuraccia. È tutta la Juventus che quell’anno è diversa: sono arrivati fuoriclasse come Sivori e Charles e la consacrazione definitiva di Stacchini avviene il 17 novembre del 1957, a Bologna, in uno stadio pieno di romagnoli che fanno il tifo per la Juventus e per lui. Gino gioca una partita straordinaria: realizza un bellissimo goal e ne fa segnare altri due a Charles e Nicolè. La strada per la Juventus lanciata verso il titolo è in discesa: lo scudetto 1958, quello della prima stella, è anche la stagione della consacrazione di Gino, presente ventiquattro volte con sei reti.
Ha lo stesso dribbling di Muccinelli e, in più, la velocità e la profondità, giocando da ala classica che arriva sul fondo e pennella cross al bacio, molto invitanti per il grande John Charles. In più, Stacchini è ambidestro e calciare con il destro o con il mancino è la stessa cosa.
La Juventus continua a vincere e Stacchini contribuisce agli scudetti 1960 e 1961 e a due Coppe Italia: inevitabilmente arriva la chiamata in Nazionale. Debutta a Bologna, città del destino, contro l’Irlanda del Nord: Stacchini gioca una grandissima partita, vinta 3-2, grazie anche a un suo goal.
Gino è un ragazzo solare, un amico allegro dallo sguardo schietto e dal sorriso offerto con scariche nervose; ti scruta sempre con occhio stanco, quasi miope (è uno dei primi calciatori a indossare le lenti a contatto) e dolce.
Un giorno del 1968, deve interrompere la love-story con Raffaella Carrà, impegnata a seminare, sul piccolo schermo, sorrisi e dinamismo tersicoreo, mentre gli italiani stanno seduti davanti alla televisione. Si erano conosciuti, da ragazzi, sulle spiagge di Bellaria; e, ben presto, la simpatia si era trasformata in amore. La loro storia scatenò l’interesse dei rotocalchi rosa e quotidiani sportivi; furono fidanzati per quasi otto anni. Inevitabile che arrivasse, da parte di Gino, la richiesta di convolare a giuste nozze ma Raffaella disse di no, preferendo rinunciare all’amore per dedicarsi alla carriera. Stacchini, dopo aver sofferto molto (anche in campo) per la fine dell’amore, si sarebbe rifatto incontrando Lora, la ragazza che sarebbe diventata la donna della sua vita, rendendolo padre orgoglioso di Sabina.
Nel 1963 la Juventus acquista Menichelli e Stacchini è costretto a spostarsi a destra, ma i suoi scatti e le sue reti continuano a essere decisivi per la squadra. Vince ancora uno scudetto nel 1967, con Heriberto Herrera in panchina e con Zigoni e Depaoli a sfruttare i suoi numerosi assist.

VLADIMIRO CAMINITI
I quattro scudetti e le tre Coppe Italia di Gino Stacchini nato dove esercitava la sua mano sapiente il poeta Pascoli, il poeta dei bambini e del latinorum, lasciano un’impronta nella storia tutta della Juventus. Fu un professionista affacciato sul futuro, che aveva un’incantevole natura, un forlivese lindo ma non servile, un’ala di quelle antiche, dal dribbling che andava al sodo, col giusto esito del goal fiammante.
E voglio dire che i goal di Stacchini erano tutti bellissimi, costituivano il capolavoro delle sue prestazioni entusiaste, giocò nella Juventus degli ultimi deliri, quando il goal racchiudeva tutto, e stava sopra a tutto, anche alla professionalità, ma c’erano fior di professionisti come questo ragazzo innocente e temerario che lottava su ogni pallone da corsaro.
Pertanto mi sembra doveroso elogiarlo per come riuscì ad affiancarsi ai rodomonti, lui che non lo era, al suo affacciarsi alla ribalta. Esordiva al posto di Præst invecchiato un giorno d’aprile del 1956 a Bergamo, Atalanta-Juventus 1-1, e ricompariva sei volte nel corso di un campionato che la Juve visse mediocremente, Præst l’ombra dell’asso che era stato, nessun goal in venticinque partite, i Colella, Vairo, Bartolini, Caroli, assi presunti di fuori, e bravi giovani del vivaio (Caroli sarebbe divenuto un buon notista calcistico), incapaci di belle cose. Con Sandro Puppo allenatore, tutti i sogni si infrangono crudelmente, la squadra è agile ma non argina e becca; arriva sulla soglia della retrocessione.
Gino Stacchini mi raccontò la sua carriera juventina un pomeriggio di ottobre del 1966, si guardava alle spalle con la fine malinconia dell’atleta che un difetto di vista frastorna nei suoi scatti nativi. Lo scatto in progressione sull’out e il cross, ventiquattro presenze nel campionato del Decimo, sei goal; venticinque presenze e quattro goal nel successivo; ventotto presenze e otto goal nel campionato dell’Undicesimo, 1959-60; due nel campionato del Dodicesimo. Poi il Tredicesimo, in cui il suo scattismo s’è impolverato, va in campo appena cinque volte, non segna nessun goal.
La grandiosa festa del primo giugno 1967 a Torino contro la Lazio lo vede in borghese, col suo viso minuto, aggirarsi felice: è il quarto scudetto, e lui mi racconta la sua vita di juventino e spiega finalmente l’arcano della ribellione di Sivori contro il bravo Broćić: «All’inizio della stagione 1958-59, le attrezzature erano insufficienti, a Graglia, e cominciarono i malumori di Sivori, perché si doveva fare footing, su e giù per le colline. Omar sempre più rabbuiato. Si attaccava al telefono, chiamava il segretario, e gridava».

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Gino Stacchini, romagnolo di San Mauro Pascoli dove è nato il 18 febbraio 1938. Settantaquattro gli anni tra qualche giorno, quindici dei quali trascorsi insieme alla Juventus. Dall’arrivo a Torino da adolescente, all’esordio in A contro l’Atalanta il primo aprile 1956, fino alle ultime apparizioni nella stagione 1966-67, quella del tredicesimo scudetto. In mezzo quasi trecento presenze in gare ufficiali, cinquantanove goal e un palmarès invidiabile: quattro scudetti, tre Coppe Italia e la Coppa delle Alpi del 1962.
Ha iniziato con Præst e Boniperti, è maturato con Charles e Sivori, ha chiuso con Zigoni e Cinesinho. Quasi sempre con l’undici sulle spalle. Lo stesso numero che aveva la sera del 21 febbraio 1962 nella partita di ritorno dei quarti di finale della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid. Sono passati cinquant’anni da quella serata, lei che ricordi conserva? «Il più curioso è che giocammo con un bellissimo completo nero, per me del tutto inedito. Fu un’idea di qualche dirigente che non si sa da dove scovò il ricordo di una Juve in maglia nera. Una scelta fortunata».
– E poi? «Il Santiago Bernabéu. Per me era la prima volta, come tanti dei miei compagni. Ce lo avevano detto che l’impatto con lo stadio sarebbe stato da urlo. A me, invece, mancò il fiato, tanto ero intimorito. In fondo per i tifosi del Real, noi eravamo il toro della corrida. Il nostro destino per loro era già segnato».
– Anche voi la pensavate così? «Il Real era un mito. Il tridente di attacco era composto da Di Stéfano, Puskás e Gento. Aveva vinto già cinque Coppe dei Campioni consecutive. Era imbattibile, specie in casa. E all’andata a Torino si era imposto per 1-0».
– Dunque avevate poche speranze di pareggiare i conti. «Sarebbe stata dura, ne eravamo consapevoli. Ma anche noi avevamo i nostri assi. Omar Sivori davanti a tutti. Poi Mora, Nicolè ed anche il sottoscritto. Senza dimenticare John Charles che mister Parola schierò centromediano».
– Un ritorno alle origini per il Gigante Buono? «Una mossa tattica azzeccata: Charles dava sicurezza in difesa e poteva ugualmente garantire il suo apporto in avanti. Devo dire che la Juve quella sera fece una gran partita e Sivori riuscì a segnare il goal che ci consenti di giocare la bella».
– Ricorda le emozioni di quei momenti? «Gioia, felicità, soddisfazione. Per me anche un senso di liberazione perché all’andata, la rete degli spagnoli la propiziai io con un passaggio sbagliato. Peccato che lo spareggio poi lo vinse il Real, ma quell’impresa è rimasta nel cuore nostro e dei tifosi bianconeri».
– Facciamo un salto indietro: com’è arrivato alla Juve? «Feci un provino dopo una lettera che il mio allenatore al San Mauro Pascoli, Tosolini, scrisse all’amico Rosetta. Avevo sedici anni, mi accompagnarono in treno a Torino e mi presero subito».
– Ricorda qualche particolare di quella giornata? «Posso dire che il Bologna mi aveva già bocciato tre volte, pur avendo fatto bene alle prove. Alla Juve non giocai bene. Feci però i cento metri con Boniperti e vinsi io. Ma questo Giampiero non lo ha mai raccontato».
– Chi sono stati i suoi primi maestri alla Juve? «Certamente Præst, un fuoriclasse, oramai a fine carriera. Imparai moltissimo da lui. Un grande signore: cambiò di ruolo, andando a giocare a destra, per consentire il mio inserimento nella formazione titolare all’ala sinistra».
– Tutto in discesa dunque. «Per niente. A un certo punto mi volevano dare in prestito, ma intervenne Boniperti che convinse i dirigenti a tenermi. Giampiero è stato un fratello maggiore per me. Aveva una personalità fortissima, in campo comandava tutti».
– Che tipo di giocatore era lei? «La classica ala di un tempo. Quella che sa palleggiare, ma anche arrivare sul fondo per crossare al centro. Ecco, queste mie qualità mi hanno fatto prevalere all’inizio su Stivanello, che era meno portato a crossare».
– In campo cosa accadeva? «Diciamo che mi veniva naturale dialogare con Sivori. Allora, dopo i primi dieci minuti, arrivava Charles e sbuffava: “Devi giocare anche con me”. Lo accontentavo. Ma a quel punto tornava alla carica Omar. Era una partita nella partita. Tutto molto bello, però».
– C’è una gara tra le tante giocate nella Juve a cui lei è più legato? «Sì. È Milan-Juventus del primo gennaio 1960. In ballo non c’era solo la vittoria, anche una maglia da titolare in Nazionale. In ballottaggio per il ruolo di ala eravamo io e il milanista Danova; mentre in difesa se la giocavano Castano e Fontana che erano i nostri marcatori»
– E che successe? «Andò bene. Io realizzai anche il goal dell’1-0. E l’indomani arrivò pure la convocazione».
– C’era molta armonia nello spogliatoio? «Si stava bene. Il gruppo era diviso in due: gli sposati e gli scapoli, tra cui Leoncini, Menichelli, io stesso, ma c’era grande amicizia e confidenza, anche se non mancava la competizione».
– C’è stato, invece, qualcosa che non ha funzionato nella sua esperienza bianconera? «La poca considerazione che ha avuto per me Heriberto Herrera. Lui aveva in mente un solo tipo di giocatore ed io non appartenevo a quel tipo. Peccato».
– Ancora legato ai colori bianconeri? «Come no! Alcuni anni fa ho pubblicato un libro di poesie, dedicato alla Juventus e ai suoi giocatori. Si intitola “Lo scatto dell’ala”. Sottotitolo: “15 anni in bianconero”. In copertina, una maglia della Juve con lo scudetto».
– Ultima domanda, inevitabile: ma la storia con la Carrà? «Una storia d’amore tra ragazzi. Ci incontrammo per caso a Roma, dove stavo facendo il militare, grazie alla sua mamma che era di Bellaria e che io conoscevo. Siamo stati fidanzati per qualche anno, poi le carriere, soprattutto la sua, non ci hanno consentito di proseguire insieme. Tutto qui».

ENZO ROBOTTI
«Quante volte ho incontrato Gino Stacchini? Non lo ricordo, sinceramente. I nostri duelli erano diventati un motivo fisso del campionato. Ho incontrato il Gino inarrestabile delle giornate di grazia, quello dimesso dei momenti di depressione. Posso dire una cosa: in forma, Stacchini era una delle ali più indigeste per un terzino. E modestamente, di ali forti ne ho incontrate, in campionato e in Nazionale».