È finito il campionato. Il sorpasso della Juve, l'imperativo del Napoli: senza scudetto, per Sarri è un fallimento. Allegri superiore, fuori e dentro il campo. La lezione di Astori

Nasce a Bari il 23.02.1988 e di lì in poi vaga. Laurea in giurisprudenza, titolo di avvocato e dottorato di ricerca: tutto nel cassetto, per scrivere di calcio. Su TuttoMercatoWeb.com
13.03.2018 00:00 di Ivan Cardia Twitter:    vedi letture
È finito il campionato. Il sorpasso della Juve, l'imperativo del Napoli: senza scudetto, per Sarri è un fallimento. Allegri superiore, fuori e dentro il campo. La lezione di Astori
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Signore e signori, è finito il campionato. Settimo scudetto consecutivo in cassaforte per la Juventus, che anzi già prepara la festa. Come? Mancano dieci giornate? Sono dettagli, o almeno così pare. Bastano due gare a cambiare lo scenario: Napoli alle corde, Juve mai così forte. La volubilità dei giudizi è tale e tanta che in due settimane si può arrivare a dire tutto e il contrario di tutto. Sono chiacchiere, in fin dei conti. 

Il campionato, ovviamente, non è finito. E, titolo provocatorio a parte, spero che chi legge arrivi almeno alla quinta riga. Non è finito per tantissime ragioni, che più o meno si proveranno a snocciolare, qui o nelle puntate successive, ma per quella ancora più basilare che il Napoli, a differenza dalla Juve, non ha altro se non la rincorsa allo scudetto per evitare di chiudere con un sostanziale fallimento la gestione Sarri. Andiamo con ordine. Il mantra del momento, per cui i bianconeri nell’immaginario collettivo sono tornati all’improvviso i grandi favoriti, qualche base, anche solida, ce l’ha. 

I numeri, tanto per cominciare, sono dalla parte di Massimiliano Allegri e dei suoi. Finalmente la Vecchia Signora è al primo posto, e nelle stagioni precedenti ha dimostrato di trovarvisi abbastanza comoda. C’è anche la gara da recuperare contro l’Atalanta, e i punti di vantaggio potrebbero diventare quattro. A dieci partite dal termine, in un campionato che potrebbe vedere la vincitrice chiudere a 100 punti, e la seconda a 95, non sono pochi. Specie per l’oggettivo divario tra le prime due della classe e il resto della scalcagnata banda chiamata Serie A. 

Il vantaggio della Juve, dopo il sorpasso, ha anche una motivazione che c’era prima e continua a esservi. Vincere, per i bianconeri, non sarebbe un’esigenza assoluta. Che poi riescano a trovare sempre una motivazione in più per primeggiare, a rimanere affamati nonostante le vittorie, è qualcosa di incredibile. Ma possono inseguire il settimo scudetto con meno pressione addosso: sono già nella storia del nostro calcio, comunque vada. Per il Napoli, che si è buttato da solo, o quasi, fuori dalle coppe, il discorso è molto diverso. Abbiamo ammirato tutti il gioco di Sarri, ma senza vittorie rischia di rimanere un trafiletto negli annali del pallone italiano. Belle o brutte che siano le squadre, contano le vittorie. Senza, il bellissimo Napoli rimarrebbe a mani vuote nell’epoca e nell’epica di un’altra squadra. Incapace non solo di rompere un monopolio mai visto nel nostro campionato, ma di vincere una qualsiasi cosa, fosse pure una Coppa Italia. Chiamatelo come volete, ma per me saprebbe tanto di fallimento. 

La normalità delle vittorie, per la Juve, è ovviamente anche un’arma a doppio taglio. E qui arriviamo ai motivi per cui lo scudetto è tutto fuorché già assegnato. Per quanto fremano, sudino, smanino per lo scudetto, i bianconeri pensano e penseranno sempre di più alla Champions League. È il cruccio della società, è il cruccio della squadra, è il cruccio di diversi singoli che ne fanno parte. Dichiarazioni a parte, è innegabile che qualche briciola potrebbero lasciarla. Il Napoli, che non è diventato brutto e scarso all’improvviso, resta in attesa di raccoglierle. Sarà prevedibile, limitato, sempre uguale a sé stesso. Ma come fermarlo l’hanno capito in due-tre allenatori, e comunque devono avere i giocatori in giornata giusta. A favore e contro: se Insigne avesse freddato Handanovic, anziché tentare un pallonetto che sa tanto di autoerotismo, di tutto questo non staremmo neanche parlando. 

Scudetto da inseguire e difendere coi denti, quindi. Con la consapevolezza, ogni giorno che passa, che la vera differenza può farla la panchina. Allegri non ha bisogno di essere difeso, forse si è stancato più di leggere gli elogi che le critiche. Però, stagione dopo stagione, continua a tracciare un solco sempre più impressionante tra sé e il resto della categoria. La sua Juve arriva a questo punto dell’anno, e non ce n’è per nessuno. E siccome la lotta scudetto è anche un duello tutto personale fra allenatori, il divario con Sarri è fin troppo ampio. Fuori dal campo: Allegri sa valorizzare il patrimonio che l’azienda gli mette a disposizione, senza rinunciare alle proprie idee. Sa gestire un gruppo ampio di campioni, dosandoli anche a livello psicologico: Dybala sembrava prossimo a diventare un estraneo, ora è tornato il leader, tecnico e non solo, della squadra. Sa comportarsi: certi scivoloni, certi autogol, anche a livello mediatico, non li commetterebbe. Dentro il campo: ho già scritto in passato di quanto credo sbagliato dividere in brutta (la Juve) e bella (il Napoli) le due squadre migliori di questo campionato. Bello e brutto sono concetti complicati, sensazioni ed emozioni, non categorie rigide. Può essere bella l’efficacia della Juve, che non prende gol in campionato in tutto il 2018; può essere brutto il palleggio sterile del Napoli, o l’incapacità di cambiare lo spartito quando serve. Bisognerebbe ricordarsene, quando si pretende di costringere la realtà in compartimenti stagni.

Lasciamoci, come spesso capita, con qualcosa che dalla Juve sembrerebbe avulso. Abbiamo salutato una settimana complicata, per chi di calcio vive, segnata da una tragedia inattesa. Abbiamo compianto Davide Astori, ognuno come ha ritenuto opportuno: forse anche con un po’ di retorica eccessiva, in certi casi, ma ciascuno ha il diritto di vivere determinati come meglio crede. Continuo a pensare che fermarsi sia stato giusto, soprattutto per ridare al calcio la sua dimensione ludica. È un gioco, in fin dei conti. Non credo che cambierà il nostro calcio, per esempio non credo che i tifosi di Juve e Fiorentina andranno d’amore e d’accordo, e per certi versi neanche me lo auguro, perché nella rivalità sta l’essenza di questo sport. Un po’ di civiltà in più, quella sarebbe auspicabile. Riportare tutto alla sua dimensione. Possiamo imparare una lezione: nel weekend, smaltiti gli applausi al tredicesimo minuto, ho visto, come sempre, diversi mestieranti del pallone protestare per un rigore non dato e che non c’era, un fallo laterale dubbio, un contatto appena più sentito. Come se ne dipendesse della loro vita. Le solite proteste esagitate, le solite parole fuori dalle righe. Sbracciarsi e stracciarsi le vesti per non aver ingannato l’arbitro, come se l’importante fosse prevaricare l’avversario con ogni mezzo. La scomparsa di Astori non cambierà il nostro calcio. Però può aiutarci a ridare priorità alle cose, ricordarci che è solo un gioco. Dovremmo imparare la lezione.