Gli eroi in bianconero: PAULO SOUSA

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
06.09.2018 10:28 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: PAULO SOUSA
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

La Juventus trapattoniana arriva ai quarti di finale di una fondamentale Coppa Uefa, obiettivo primario di stagione, poiché in campionato le cose non vanno benissimo. Avversario il Benefica, gara di andata a Lisbona. Una battaglia, contro un avversario che lotta su ogni pallone, trascinato da un giovinotto che sembra avere la calamita ai piedi, tanto riesce in ogni contrasto a mantenere il pallone strettamente incollato al suo destro. Il suo nome è Paulo Sousa ed ha ventitré anni scarsi; non è solo un lottatore, ma è capace di lanci millimetrici e sa dettare pure egregiamente i tempi della manovra.

«Sono nato e cresciuto a Viseu, nel centro del Portogallo – racconta – in seno ad una famiglia di pochi averi ma in cui, al contrario, non mancavano l’armonia, l’affetto, il senso del dovere e della giustizia. Cioè, un focolare eticamente ineccepibile. Mio padre Delfim era ed è meccanico di moto e mia madre, Maria Madalena, sarta. Meno male che adesso, con il mio aiuto, può permettersi di stare a casa. Chi svolge lavoro dipendente, per di più umile non può di certo campare nell’agiatezza, stenta a far quadrare il bilancio domestico. Io sono il primogenito. Poi è arrivato un fratello e le cose, naturalmente, dal punto di vista dei mezzi, non sono migliorate».

Nell’infanzia, Sousa fa quello che di solito fanno i ragazzi di origine campagnola: va a scuola e sferra i primi calci nelle strade impolverate del suo paese. Fino ai dodici anni il traguardo da inseguire è quello del profitto scolastico, degli esami che occorre superare. Ma a quell’età è ancora facile conciliare gli impegni scolareschi col divertimento. Paulo trova anche il tempo e il modo di provare altre attività sportive, come il basket e l’atletica leggera, corse sulla media e lunga distanza. Non vuole smentire una specie di diffusa predestinazione della sua terra, che ha dato i natali a famosi corridori di fondo. L’unico rimpianto è non aver mai provato con la pallavolo, la disciplina sportiva che ha sempre gradito di più. Tra i dodici (quando firma il primo cartellino per il Repesenses) e i quindici anni la scuola e il calcio convivono fianco a fianco, senza intralci. Intanto, si mette in evidenza nella formazione degli Iniciados che disputa il campionato portoghese della categoria (zona Nord) e che, trascinata da lui, si batte a tu per tu con le rappresentative del Porto e del Boavista. Sousa conclude anche il ginnasio (nono anno di scolarità) con un dieci e lode in matematica. Il sogno è diventare insegnante, più precisamente maestro elementare. Ma è un sogno mancato, perché il destino decide diversamente.

Uno di quegli osservatori che percorrono di continuo il paese in lungo e in largo, Peres Bandeira, già commissario tecnico delle Nazionali giovanili, lo segnala al Benfica: «Il signor Bandeira si mise in contatto con mio padre e l’accordo venne raggiunto in pochi giorni. Anche se tifavo Sporting e il trasloco mi allontanava dai miei e scombussolava radicalmente i miei progetti, non potevo permettermi il lusso di rifiutare l’occasione di spiccare il primo grande salto della mia vita». Al Benfica sono sette anni di apprendistato, di evoluzione, di maturazione, di affermazione: «Quasi tutto quello che valgo come calciatore lo debbo all’allenatore Tamagnini Nenè, un goleador del Benfica negli anni Sessanta». Il corollario logico di questa crescita è l’arrivo stabile prima alla Nazionale juniores (Campione Mondiale Under 20 nel 1989 a Ryad, in Arabia Saudita) e poi a quella principale: «Debbo ringraziare Carlos Queiroz, perché mi ha proiettato a livello internazionale e instillato in me la mentalità vincente, e Sven Góran Eriksson, perché mi ha lanciato in prima squadra quando ero appena un diciannovenne. Due grandi allenatori che hanno segnato in modo tangibile e indelebile la mia carriera».

Nell’estate del 1994, quando la grande rivoluzione lippiana è agli albori, Paulo Sousa diventa bianconero. Nasce una Juventus nuova, che guarda avanti e pensa in grande, una Juventus che costruisce a metà del campo la sua forza. C’era già Conte, adesso ecco il portoghese di Viseu nel pieno della condizione e dello smalto. Un lottatore che corre e combatte, ma che sa pure dirigere il traffico: se ne sentiva il bisogno. La Juventus parte con qualche timore, poiché la squadra è nuova per oltre metà, ma con gente come Paulo Sousa le paure passano presto. Mancava alla Juventus un tipo alla Rijkaard, un interditore capace di proporsi e soprattutto fare la spola tra difesa e attacco, come dicevano i cronisti del calcio che fu. Paulo è modernissimo nella concezione del gioco, ma incarna questo prototipo antico e sempre valido. La Juventus, che vince con le stoccate di Vialli e Ravanelli e incanta con le prime prodezze del giovanissimo Del Piero, ha nel portoghese il cuore pulsante.

«Il mio gioco è fatto di parecchie cose, – dice Paulo dopo pochi mesi in bianconero – sono molto portato al recupero del pallone e al rilancio immediato. Ma in questa fase, non mi limito solo a far girare la palla. Cerco invece di verticalizzare, di cercare il compagno meglio piazzato o mi inserisco e mi propongo io stesso, per spingere, sostenere le punte. Finché non sono stato nel pieno possesso dei miei mezzi atletici, ho dovuto limitare la mia azione. Appena ho recuperato la piena condizione, ho cominciato a giocare alla mia maniera, cercando di dare alla squadra quello che il tecnico si aspetta da me. L’ho detto più volte: in Italia, alla Juventus, sono venuto per fare un salto di qualità e per vincere qualcosa. E ora che sto bene penso proprio di riuscirci».

Una stagione da incorniciare, il lusitano ha una continuità di rendimento impressionante. Nel primo campionato dei tre punti che la storia ricordi, gioca ventisei partite saltando per infortunio qualche gara, ma facendo sempre fortemente sentire il timbro della sua presenza. Più propenso a far segnare i compagni che a cercare avventure in proprio, Paulo Sousa trova però, in modo estemporaneo quanto meritatissimo, la gloria del goal proprio nell’occasione più importante: è l’8 gennaio 1995, quando la Juventus capolista rende visita alla sua inseguitrice più accreditata, il Parma. Sono i ducali a portarsi in vantaggio con l’ex Dino Baggio; passano pochi minuti e un tiro di Paulo Sousa, sorprendendo Giovanni Galli, si infila nell’angolo alto più lontano. È il goal che lancia la rimonta bianconera, che culminerà in una netta vittoria. E quando, il 21 maggio, sempre contro il Parma secondo in classifica, si materializza anche per la matematica il primo scudetto degli anni Novanta, sono in tanti a dire e a scrivere che uno degli artefici massimi della conquista è proprio Paulo Sousa. Brillante anche nella sfortunata galoppata in Coppa Uefa persa nella doppia finale, ancora contro il Parma, il portoghese incornicia il suo primo anno bianconero mettendo la firma anche sulla conquista della Coppa Italia, battendo nuovamente la compagine allenata da Nevio Scala.

«Ho sempre saputo che correre è importante, perché in campo c’è una palla sola ed io voglio starle vicino. Però non bisogna correre a vuoto, tutto deve seguire un disegno. Tutti danno grande importanza all’ultimo passaggio, perché spesso il goal nasce in quel momento. Ma io credo sia decisivo soprattutto il primo. Non bisogna aver paura di rischiare: all’inizio sbagliavo molto e mi criticavano, però il mio modo di giocare è questo, dovevo solo trovare l’intesa col resto della squadra. Ho sempre amato Falçao, forse è vero che il mio tipo di gioco lo ricorda ma ognuno è se stesso. Non è vero che il regista appartiene al calcio del passato: anche oggi serve chi organizza. La differenza rispetto alle altre epoche è la velocità, tutto deve procedere in millesimi di secondo».

La stagione successiva Paulo non riesce a garantire che un rendimento incostante, a causa dell’infortunio al ginocchio e delle marcature asfissianti alle quali è sottoposto. Fa comunque salire a ventinove le sue presenze in campionato e riesce a mettere la firma nella conquista più attesa e prestigiosa: la Champions League. Prima del trionfo di Roma, c’è una partita chiave, la semifinale di ritorno a Nantes, in cui il lusitano è l’assoluto protagonista di una delle più strepitose azioni dell’intera stagione; conquistata palla nella sua metà campo, parte in contropiede infilando gli avversari come birilli e presentandosi poi per la conclusione vincente davanti al portiere francese. Un goal stupendo che sancisce la qualificazione bianconera per la finalissima.

È anche l’ultima perla del biennio bianconero. Il portoghese parte da Torino, destinazione Borussia Dortmund. «Io volevo restare alla Juve – confessa ad Angelo Caroli su “La Stampa” – ma Lippi non mi vedeva inserito nella squadra che è stata costruita grazie ai tanti arrivi. E, a quel punto, ha spinto per la mia cessione. Lascio a Torino tanti buoni ricordi, Per le persone per bene contano parecchio. Mi mancheranno certi luoghi, certi amici, certe atmosfere. E mi mancherà la Juve, la sua storia, il suo ideale. I tifosi sapevano di poter contare su uno che li trascinava con entusiasmo, con voglia di vincere e professionalità. Non li ho delusi, parlano i fatti. E insieme abbiamo vinto tutto. Il primo anno è stato stupendo. Ho mantenuto le premesse e le promesse, confermando il mio valore. Nel secondo anno sono spuntati i problemi, nonostante il successo in Champions League. Abbiamo sbagliato in molti. Io non dovevo dimostrarmi troppo generoso. E c’è chi ha approfittato della mia voglia di rendermi utile. Nessuno mi ha mai obbligato a scendere in campo, ma qualcuno mi ripeteva: “Per favore Paulo, anche con una gamba sola, vedi se puoi darci una mano”. L’Europeo ha dimostrato che, quando sto bene, non temo rivali. E ho servito chi credeva che io avessi tanti problemi».