Gli eroi in bianconero: John HANSEN

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
27.07.2020 10:27 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: John HANSEN
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«Caligaris rifiuta gli schemi – ha scritto Gianni Giacone – non perché sia un anarchico, ma semplicemente perché non li concepisce: il calcio, per lui, è un gioco tanto entusiasmante quanto semplice, che si gioca con la palla. Chi ha la palla, alla lunga, vince. Compito fondamentale suo è di sradicare più palloni possibili dai piedi degli avversari. Insomma, lottare, correre e poi ancora lottare».

Era nato e cresciuto a Casale Monferrato, proprio in un’epoca nella quale la squadra nerostellata ospitava nelle sue file giocatori di sicura classe e di grande temperamento. Caratterizzò un lungo periodo della storia calcistica italiana ed espresse elementi di indubbio valore, molti nomi, fra cui spiccano quelli di Eraldo Monzeglio e di Berto Caligaris.

Poderoso atleta, si era segnalato sin dalle sue prime apparizioni nelle formazioni giovanili; entrava sul pallone con l’impeto delle valanghe che scendono a valle. Aggressivo e istintivo, perfetto colpitore, tagliava l’aria a fette con le sue acrobatiche sforbiciate, di cui gli si assegna la paternità.

Giocava con eccezionale grinta, senza smettere un attimo di incitare i compagni, secondo quel vigoroso temperamento di trascinatore di cui la natura lo aveva dotato.

Portava i capelli lisci abbastanza lunghi tenendoli a posto con un candido fazzoletto: nelle mischie quella fascia bianca, che gli cingeva la testa, lo rendeva subito riconoscibile quando si scrollava con foga dai viluppi di uomini.

Era un’autentica forza della natura, una massa di muscoli messi al servizio di una tecnica squisita.

Nella stagione 1923–24 Caligaris, del quale i dirigenti juventini avevano già sentito parlare, comparve per la prima volta come avversario della Juventus e di quei due personaggi, Combi e Rosetta, di cui sarebbe poi divenuto inseparabile amico.

Entrambe le partite di quel campionato si conclusero con il successo della Juventus sul Casale, con il punteggio di 3–2 e c’è da segnalare un curioso particolare: un goal realizzato da Viri Rosetta che in quella formazione (10 febbraio 1924, campo di Corso Marsiglia) figurava come attaccante.

Con una finta diabolica, Viri riuscì a sbilanciare Caliga che gli si era fatto incontro come una furia e a battere, con un abile tocco, il portiere casalese De Giovanni.

Per altre quattro stagioni Caligaris continuò a essere il perno della difesa nerostellata, anche se in maglia azzurra, sino dal giugno 1925 a Valencia, il terzino casalese aveva felicemente completato il trio di difesa insieme a Combi e a Rosetta.

Anche alle Olimpiadi di Amsterdam la coppia Rosetta–Caligaris, allineata davanti a Combi, si era confermata come la più forte del mondo. Alla Juventus convennero che sarebbe stato assolutamente necessario assicurarsi il fortissimo terzino del Casale, per cominciare dalla difesa, la costruzione di quella che sarebbe stata la squadra monstre degli anni ‘30.

Edoardo Agnelli e Giovanni Mazzonis non esitarono: alla Juventus le decisioni erano prese senza tentennamenti e Caligaris fu convinto a trasferirsi a Torino. Così Caliga diventò bianconero a tutti gli effetti, giocando 26 gare su 30 nel suo primo campionato.

L’arrivo del casalese aveva conferito saldezza e omogeneità al trio di estrema difesa, proprio perché le qualità di Rosetta integravano e completavano quelle di Caligaris.

Viri e Berto: due prodotti tipici del calcio provinciale e pure tanto diversi, come temperamento, come carattere, come gioco. Rosetta è apparso di colpo come giocatore completo, affinò in seguito il suo gioco con l’esperienza, ma non ne mutò più la base. Elemento calcolatore, freddo, positivo il vercellese; entusiasta, tutto fuoco, irrompente, il casalese. Il primo studiava l’avversario, il secondo lo investiva. Questo diverso comportamento in campo traduceva il diverso carattere dei due uomini: di poche parole, riflessivo, osservatore Rosetta, espansivo, tutta cordialità, esuberante Caligaris.

Caligaris, però, era forse più avanti nei tempi, perché sarebbe stato sicuramente un perfetto terzino “sistemista”. A quell’epoca non esisteva il centromediano arretrato e i terzini tenevano a zona la parte centrale del campo, scaglionati in profondità. Berto giocava terzino avanzato o di rottura, un compito a volte ingrato, di scarse soddisfazioni, che solo un generoso e un altruista come lui poteva accettare.

Caliga esordì in Nazionale a 21 anni, il 15 gennaio 1922, al Velodromo Sempione di Milano, affrontando la temibilissima formazione dell’Austria. La squadra azzurra aveva uno schieramento un po’ avventuroso all’attacco, ma la difesa, con Caligaris in coppia con De Vecchi e la mediana imperniata sui tre assi del Genoa, Barbieri, Burlando e Leale, dava il massimo affidamento. Infatti, Caligaris giocò una buona partita, rimanendo nella famiglia azzurra per ben dodici anni, totalizzando la bellezza di 59 presenze e risultando, per molto tempo, il primatista delle presenze azzurre.

Verso il termine della carriera, avrebbe sicuramente potuto indossare per la sessantesima volta la maglia della nazionale ma Vittorio Pozzo, che pur lo aveva in particolare predilezione, non riuscì ad accontentarlo, affidandogli il simbolico ruolo di alfiere della squadra nazionale in occasione del Campionato del Mondo del 1934.

«Caligaris pianse quando gli dovetti negare la soddisfazione di giocare la sua sessantesima partita in maglia azzurra, cifra tonda; pianse e nascose il suo dolore incoraggiando, con ogni sua forza, i compagni», raccontava Vittorio Pozzo.

Caligaris chiuse la sua carriera nella Juventus con la vittoriosa partita, in casa contro la Pro Vercelli: 3–0. Era il 26 maggio 1935.

Dopo la lunga e onoratissima carriera, Berto appese gli scarpini al classico chiodo e passò all’insegnamento, prestando servizio in diverse società, compresa, naturalmente, la Juventus.

Mentre era a Brescia, fu colpito da una grave forma di setticemia, dalla quale riuscì a guarire, grazie alla sua fibra eccezionale e a parecchie trasfusioni.

L’apparato cardiocircolatorio ne risentì sensibilmente e i medici gli proibirono qualsiasi sforzo, consigliandogli anche di evitare emozioni.

Un giorno del 1940 lui e i suoi vecchi compagni si ritrovarono per un allenamento in vista di un torneo fra vecchie glorie. C’erano Combi e Rosetta: si trattava di ricostruire il trio protagonista di tante battaglie internazionali e Caliga non volle mancare. Rosetta gli disse di rinunciare, perché non era il caso di sottoporsi a pericolosi sforzi ma Berto non volle sentire ragioni. A un tratto, mentre rincorreva un pallone, Caligaris si sentì male e fu adagiato accanto al palo della porta.

I compagni lo sollevarono e lo trasportarono al vicino Ospedale Militare, dove l’ufficiale medico di servizio, mentre si apprestava a praticargli un’iniezione tonificatrice, dovette dolorosamente annunciare ai pochi presenti che nessuna cura avrebbe più giovato a quel generoso cuore, che aveva oramai cessato di pulsare.

Così Umberto Caligaris chiuse la sua non lunga ma intensa giornata. E fu posto nella bara con la maglia della Juventus e, accanto, quella della Nazionale azzurra.

Visse al completo l’epopea del favoloso quinquennio anni ‘30 e senza mai realizzare un goal mandò in archivio un bottino di 197 presenze: 178 di campionato e 19 nell’ambito della Coppa dell’Europa Centrale.

Insieme al compagno di reparto Rosetta vinse 5 scudetti consecutivi e quando gli domandavano quale fosse il loro segreto, lui rispondeva sorridendo: «Semplice: mai distrarsi, non dare all’avversario nemmeno il tempo di tirare il fiato!»

«Quando il pallone era abbastanza alto da essere colpito di testa e non abbastanza basso – racconta a “Tuttosport” nel 1958 Viri Rosetta – quando insomma gli arrivava all’altezza dello stomaco, il povero Caliga si elevava in salto, tendendo in alto la gamba che non avrebbe calciato; un attimo prima che gli arrivasse la palla, mandava bruscamente in basso questa gamba favorendo così il movimento e la forza di lancio dell’altra gamba che avrebbe calciato. Aveva la giusta avvertenza, il povero Berto, di tenere un po’ piegata al ginocchio la gamba che avrebbe rimandato, per effettuare un lungo lancio, non un tiro alle stelle. Gli bastava poi il rinculo prodotto dall’urto con la palla per permettergli di ricadere nell’eretta posizione normale sulle gambe, facilitato dal movimento delle braccia che aveva tenuto aperte, per l’equilibrio del corpo prima, e perché gli servissero poi da contrappeso nella fase di atterraggio. Era, beninteso, un rimando di liberazione, questa sforbiciata e non un preciso passaggio».