Gli eroi in bianconero: Francesco MORINI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
12.08.2018 10:34 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Francesco MORINI
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Veste la maglia bianconera nell’estate del 1969, arrivato, dalla Sampdoria, in compagnia di Bob Vieri. Due personaggi completamente differenti: lui pisano (nato a Metato, frazione di San Giuliano Terme) concreto, attento, preciso, attaccato alla professione; il pratese geniale, quanto incostante, promessa mai mantenuta nel nostro calcio. L’allenatore della Juventus è Luis Carniglia, un esigente sognatore, il quale avrebbe voluto che tutti i propri giocatori, anche uno stopper, saltassero gli avversari con un tunnel. Morini non aveva per niente queste caratteristiche e si trovò a disagio. Era una piovra che, con mille tentacoli, toglieva il pallone dai piedi del diretto rivale, uno stopper perfetto, dalla marcatura ferrea.
«Sapevo di avere dei limiti, ma sono sempre stato sorretto da un buon fisico e da un’ottima condizione atletica; seppure fossi alto, ero molto veloce e scattante, sicché potevo marcare, indifferentemente, avversari piccoli o ben messi. Anche se non cattivo, sono sempre stato molto spigoloso, rognoso e appiccicoso, pronto in ogni momento a far valere il mio anticipo, Di certo, non mi cimentavo in lanci millimetrici, preferivo appoggiare la palla a un compagno vicino a me».

Soprannominato Morgan, come il pirata, perché, come scriveva un giornalista a quel tempo, da pirata era il suo modo di depredare l’avversario del pallone roteandogli addosso i bulloni, di arrangiarsi con i gomiti. Fisico poderoso e asciutto (181 centimetri per settantatré chili), undici volte nazionale, Morini era uno di quei rari atleti mai domi, di grandissima utilità, capaci di giocare anche con una caviglia a pezzi, con un muscolo dolente. Arrivò a marcare un extra terreste come Cruijff, malgrado avesse un tallone fuori uso. Bastava un’iniezione antidolorifica per farlo scendere in campo: «In bianconero ho passato degli anni meravigliosi. Abbiamo centrato risultati eccezionali, sia in Italia che in Europa, ho avuto per compagni di squadra, dei veri campioni. È importante giocare con dei campioni, perché ti trascinano ed io mi sono fatto trascinare. Ricordi ne ho tanti, rimpianti un solo: Belgrado, eravamo nel 1973, finale di Coppa dei Campioni, persa contro un Ajax grande, ma non poi così grande. Insomma, avremmo potuto anche giocarcela, invece andò come tutti sanno».

Francesco lascia la Juventus alla fine del campionato 1978-79. Si trasferisce in Canada, nel Toronto Blizzard a studiare lingue, per poi presentarsi, successivamente, al corso di manager di Coverciano. Terminato il corso, Cecco, ritorna alla Juventus come dirigente: «Un tipo di lavoro che mi ha sempre affascinato e appassionato». Mette a disposizione la sua esperienza maturata sul campo, che unisce la professionalità all’amore per colori per i quali ha dato molto ma dai quali, dice, ha ricevuto moltissimo: «Ho sempre cercato di imparare dai più bravi, sia da calciatore che da dirigente ed ho sempre continuato a farlo. Sono stato onorato di far parte della famiglia bianconera, mi sono sempre identificato in questo ambiente, conoscendone i segreti; non mi sarei mai visto a lavorare altrove».


VLADIMIRO CAMINITI
Ciccio Morini detto Morgan, stopper sgranocchiante il pallone come una cabala misteriosa, soltanto in fin di carriera finalmente in grado di stopparlo al volo, eppure negli scudetti juventini della prima serie bonipertiana uno dei fondamentali della squadra, per l’epica grinta. Aveva negli occhi tutto l’infinito della speranza quando lo conobbi nella Sampdoria allenata da Ocwirk. Biondo e aguzzo, andava in campo e risolveva la vicenda del gioco come un fatto personale con l’asso a lui affidato. Bisognava arginarlo e possibilmente annichilirlo, ed ecco Morgan, piratesco il suo stile nell’irruzione tra pallone e piede portante, nella spallata leale ma dura, l’avversario interdetto tentava la replica, ma incespicava fatalmente nel rivale a lui addossato, come una parte del suo stesso intendere, felinamente intuitivo negli anticipi più condizionati. Allenandosi con ossessiva costanza, rispettandosi come un anacoreta, Morini risolse nella Juventus decisa a vincere tutto, allenata da Vycpálek, da Parola e anche dal giovane Trap, ogni problema delle domeniche affliggenti, e se un avversario riuscì a superarlo fu Giggiriva di Leggiuno, che sgomitava anche lui, ferocemente proteso al goal d’autore. Quando, nel 1973, Valcareggi lo convocò in Nazionale, insieme a Zoff, Spinosi, Furino, Causio, Anastasi e Capello, era divenuto proprio necessario. Aveva già due scudetti sul petto, ne avrebbe vinti altri tre, con un rendimento sempre sostanziale, che aveva sbugiardato quel verdetto del Caballero falsamente appassionato Carniglia dei suoi pochi mesi di permanenza juventina. Il cherubino Morini, pur non possedendo l’aire dello stile di Bellugi, completava idealmente la squadra ruggente su tutti i traguardi, in un tempo di calcio a misura di uomo, e di chi uomo era nella vita come in campo.

Non ha mai segnato una rete ufficiale: «A dire il vero, una volta un goal l’ho fatto, in un torneo italo-inglese, disputato in un’estate di tantissimi anni fa. In ogni caso, la mancata segnatura di reti non mi ha mai contagiato più di tanto, perché ciò che mi esaltava era fare in modo che non andasse in goal l’uomo che dovevo marcare. Questo equivaleva, per me, a una rete, perché se in squadra devono essere particolarmente attivi i bomber, altrettanto devono esserlo i difensori a imbrigliare il gioco delle punte avversarie». Come dargli torto?