Gli eroi in bianconero: Ernesto CASTANO

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
02.05.2018 10:30 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Ernesto CASTANO
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Per ben due volte rischiò che la sua carriera fosse finita, per ben due volte tornò in campo, nonostante i medici gli avessero detto che non avrebbe più potuto farlo. È la storia di uno straordinario uomo di calcio, Ernesto Castano, per tutti Tino, «Il terzino di maggior classe mai avuto dalla Juventus», garantisce chi ha giocato con lui. Cominciò, appunto la sua carriera come terzino per diventare, nelle ultime stagioni, un libero di grande stile, diventando un ostacolo invalicabile per gli avversari, nonostante sembrasse reggersi precariamente sulle gambe: «Molti pensano che giochi pesante, ma è sbagliato. Gioco con vigore, ma in maniera corretta. Forse è il mio atteggiamento, il mio volto spesso imbronciato che mi fa passare per un duro». Un giornalista, dopo l’ultima lunga convalescenza e il ritorno alle partite gli chiese quale fosse il sogno più bello che avrebbe voluto veder realizzato. Lui rispose sorpreso: «Ma è la realtà di oggi; tutto quello che ho è già un magnifico sogno realizzato».
Nato a Cinisello Balsamo, paese alle porte di Milano, il padre era proprietario di un negozio di biciclette e avrebbe sognato per lui un futuro da ciclista. Invece, Tino, scelse il pallone: prima all’oratorio, poi nella squadretta locale in seconda divisione, quindi al Legnano in Serie B e retrocesso, subito dopo alla Triestina pure in Serie B.
Tino arrivò alla Juventus nel 1958: la sua prima maglia bianconera aveva lo scudetto e la prima stella, appena conquistati. Debuttò in novembre, al posto di Ferrario nella trasferta di Bari, la domenica dopo un’epica partita che la Juventus aveva perduto in casa con il Milan, con la gente assiepata ai bordi del campo: un incredibile 4-5, causato soprattutto dalle clamorose distrazioni della difesa bianconera. Giocò, in quella stagione, sedici partite sia come centromediano sia come terzino e diventò subito una delle rivelazioni di quel campionato.
Il grande Viri Rosetta, che lo seguiva da tempo, aveva capito che quel ragazzo avrebbe fatto molta strada; lo aveva visto affrontare, deciso e scattante, il temibile Montuori, ala della Fiorentina, un tipo tutte finte, trucchi e scatti, difficilissimo da fermare. Di Tino disse, nella primavera del 1959: «In campo non scherza mai; sia contro una prima linea di grandi assi come quella viola, sia in allenamento contro i ragazzini, Castano “entra” con la stessa decisione, la stessa grinta. Di testa è un ottimo colpitore e la stessa statura lo aiuta insieme a doti di elevazione notevoli».
A chi gli chiedeva se sarebbe diventato un futuro titolare nella Juventus, Rosetta rispondeva, con la cautela del grande esaminatore: «È serio, forte di carattere, vuole arrivare. Ha insomma molte possibilità di riuscire».
Sette mesi più tardi Castano era il terzino destro della Juventus, avviata a vincere l’undicesimo scudetto, e debuttava in Nazionale. Firenze, 29 novembre 1959, Italia-Ungheria. Non era più l’Aranycsapat, non c’erano più Puskás e Kocsis, Boczik e Czibor, ma i giovani che li sostituivano erano i degni successori di quella fantastica squadra.

Uno dei più temibili era Fenyvesi, ala sinistra: il ventenne Castano seppe affrontarlo in una gara impeccabile per stile e freddezza. Gli attaccanti ungheresi giurarono che raramente si erano trovati di fronte un difensore tanto deciso; gli addetti ai lavori dissero che la Nazionale italiana aveva scoperto un terzino di classe completa, gran battitore, acrobata, incontrista di brusca fermezza.
Castano giocò altre sette partite di campionato e alla fine di gennaio dovette farsi togliere il primo menisco al ginocchio destro; i medici gli dissero che difficilmente avrebbe potuto continuare a giocare. Undici mesi dopo, a Lecco, scese di nuovo in campo. Giocò un’altra serie di partite, ancora una rincorsa allo scudetto (il dodicesimo), poi, un giorno, quella dolorosa fitta che oramai conosceva bene: di nuovo in clinica, stavolta per operare un menisco, quello esterno, del ginocchio sinistro.
Era il 1961, un anno che Castano non avrebbe dimenticato facilmente; fece appena in tempo a tornare in campo e si trovò nuovamente in sala operatoria, ancora il ginocchio sinistro per togliere il menisco che restava. L’intervento, purtroppo, non riuscì bene e si rese necessaria un’altra operazione in Francia. Questa volta era finita davvero: «Il suo ginocchio non potrà guarire completamente, deve rassegnarsi», gli dissero i medici, «l’arto non avrebbe potuto più reggere allo sforzo di una gara».
«Sembrò che il mondo fosse diventato buio», disse. Aveva solamente ventidue anni, ma ricominciò ad allenarsi, nonostante dolori lancinanti, senza mai arrendersi: corse, ginnastica, palleggi, l’aiuto materno della società, le prime partite non impegnative. Il libero con le ginocchia di vetro tornò in campionato, stavolta per giocare interi campionati. Si erigeva in mezzo all’area, in precario equilibrio, ma usciva autoritario dalle mischie, fermava gli avversari, spediva splendidi palloni con nitidi allunghi di quaranta metri ai compagni dell’attacco.
Era seguito dall’ammirazione e dall’incredulità per quelle due fragili ginocchia che sembravano mandare sinistri scricchiolii a ogni improvviso e brusco scatto: «Giocare con le ginocchia a posto vuol dire poter fare tutti i movimenti voluti; invece, io, per ottenere ciò, devo sottopormi a un attento studio. Adesso, comunque, proprio grazie a questi sacrifici, il mio rendimento è tale e quale quello ante operazioni».
Fece in tempo a vincere un altro scudetto, quello di Heriberto, nel campionato 1966-67: lui e Salvadore, al centro della difesa, erano l’anima di una squadra che non si arrendeva mai, proprio come il suo capitano: Tino Castano. Rientrò anche in Nazionale, nove anni dopo quella domenica fiorentina contro gli ungheresi. Fu a Napoli, contro la Bulgaria: in porta aveva lasciato Buffon e ora trovava un debuttante che sarebbe entrato nella leggenda: Dino Zoff. Giocò ancora cinque partite, diventando anche Campione d’Europa.
La prima domenica di aprile del 1970, l’anno dello scudetto del Cagliari, a Torino contro il Brescia, giocò l’ultima partita in maglia bianconera; aveva trentuno anni. Aveva cominciato tra Emoli e Fuin, chiudeva tra Morini e Cuccureddu, ma dietro questi dati storico statistici c’era una stupenda lezione di vita, una straordinaria rivincita sul destino.