Gli eroi in bianconero: Benito SARTI
«Giocavamo per divertire il pubblico, quel pubblico a cui dovevamo fama e, perché no, qualche soldo. Ci si allenava duramente per essere pronti la domenica, per non fare mai brutte figure, per fare in modo che i nostri tifosi fossero contenti e soddisfatti per una bella partita o una vittoria. Ai miei tempi non era concepibile battere la fiacca, altrimenti ci si rimetteva per sempre la faccia».
ANGELO CAROLI, DA "HURRÀ JUVENTUS" DELL’AGOSTO 2000
Anima semplice e grande terzino, lo chiamavamo “boccolo d’oro” per via dell’uso maniacale che faceva del “fon” per increspare la testa bionda di riccioli.
Andiamo indietro negli anni, a cavallo dei ‘50 e ‘60. Benito è un difensore naturale, cresciuto a Padova dove, adolescente, scopre l’arte italiana di piegare la schiena sotto il peso di una cinghia di canapa per trainare un carretto pieno zeppo di frutta e ortaggi. Suo padre fa l’ortolano. Ogni giorno il bocia spinge quel trabiccolo per 40 chilometri e alla fine della giornata si riposa all’ombra del monumento del Gattamelata, nella Piazza del Santo. E intanto gioca al pallone. In quel periodo di sacrifici e passione rifinisce il senso del dovere. E il suo angelo custode è il perfezionismo. I tifosi ricordano quando prima di entrare in campo il giovane Benito si inginocchiava per controllare se le scarpe fossero ben allacciate. Era molto di più che un semplice rituale scaramantico.
Cresce con Nereo Rocco, il Paròn. E vola verso la gloria. Nel ‘57 viene acquistato dalla Sampdoria. È già una fionda con la testa bionda. La rima gli piace. E vola ancora, tanto che nel ‘59 lo chiama il club più prestigioso d’Italia. La Juve lo compera per 80 milioni, una cifra esorbitante per un difensore. Benito non smette di saltare e volare, elegante, sicuro, tempista, con garretti che sembrano di caucciù. Ha due piedi d’oro, come la testa. È buono ma schivo e introverso. Parla poco e brontola a voce bassa. Si sfoga solo con chi entra in sintonia con lui. È attento e scrupoloso, Cesarini e Parola gli insegnano segreti fantastici e lui mette tutto in un cassetto, come i sogni. E li esibisce sul campo per migliorare la sua figura di terzino versatile e anche di centromediano dalla battuta sicura e rapida. Diventa una colonna anche con la maglia azzurra. Gioca in Nazionale sei partite, il debutto si celebra nel ‘59 nel famoso pareggio di Colombes, quando Nicolè sigla due gol che fanno delirare i fans italiani.
Sarti non si ferma, continua a volare e a trasformare la teoria in pratica. E ad accarezzare i boccoli biondi con interminabili soffi di “fon”. È sempre l’ultimo a lasciare lo spogliatoio, con la testa vaporosa come una colata di zucchero filato. La carriera nelle fila bianconere si allunga. Conosce anche Heriberto Herrera, un mastino che sta scomodo a tanti. Benito vince con lui il terzo scudetto.
Poi lascia il calcio ma non si allontana dal Piemonte. Mette su famiglia, la moglie gli dà due figlie, Isabella e Sabrina, che sono bionde come lui. Lascia il calcio con un secco e coraggioso colpo di machete. Non brontola più il padovano buono come il pane, però sono sicuro che insiste tutt’oggi nel custodire con gelosa delicatezza quei riccioli che a 64 anni si sono inceneriti un po’.
«Rammento come fosse accaduto ieri un episodio buffo che ha per protagonisti proprio Umberto Agnelli e il sottoscritto. Siamo nel ‘59, e vengo convocato in Nazionale a Firenze per l’incontro con l’Ungheria, nonostante fossi influenzato da una settimana. Ma in campo dimentico gli acciacchi, e me la cavo piuttosto bene. Al termine della partita, davanti alle telecamere della Rai il mio intervistatore è proprio lui, il Dottor Umberto: “Sarti, ci dica: come ha fatto a salvare tre gol, praticamente già fatti, sulla riga di porta?”. “Presidente, il trucco è semplice: giocando, ho imparato anche a fare il portiere senza usare le mani”. Qualche giorno dopo a Torino gli regalai la medaglia d’oro con la quale all’epoca venivano ricompensati gli azzurri».