Gli eroi in bianconero: Angelo PERUZZI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
16.02.2018 10:30 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Angelo PERUZZI
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© foto di Antonello Sammarco/Image Sport

La leggenda racconta che a Blera, il paese in provincia di Viterbo dov’è nato, Angelo allenasse la presa ferrea delle mani cercando di afferrare i pesci nei ruscelli. La passione originaria, quasi genetica, è per la pesca. Ma la prodigiosa abilità delle mani trova sfogo anche altrove, per esempio nel ruolo solitamente meno amato dai ragazzini che giocano a pallone. Nasce così, quasi per scherzo, il portiere Peruzzi. La prima squadra è quella di Blera. Il passatempo diventa, in breve tempo, una cosa più seria. Angelo è notato dagli osservatori della Roma, che convincono papà Francesco e mamma Francesca ad affidarglielo. Non è facile, perché l’idea che il figlio tredicenne trascorra lunghi periodi fuori di casa è accettata con molte riserve, ma alla fine il ragazzo si trasferisce nella foresteria giallorossa della Montagnola.
Di qui, prende l’autobus per recarsi agli allenamenti a Trigoria. I suoi maestri sono Negrisolo e Superchi. Il primo lo convince a diventare romanista da laziale che è, altrimenti non lo avrebbe allenato. Angelo continua a frequentare la scuola fino alla terza ragioneria e intanto progredisce. Non ha quasi il tempo di farsi notare nella squadra Primavera, perché a nemmeno diciotto anni è già in campo a San Siro: 13 dicembre 1987, si gioca Milan-Roma. Alla fine del primo tempo si accascia a terra Tancredi, colpito da un petardo. In panchina c’è Angelo, che gioca la ripresa ed è battuto solo su rigore, calciato da Virdis. Poi il Giudice Sportivo assegna il 2-0 ai giallorossi. Quella rimane l’unica esperienza stagionale di Serie A.
L’anno dopo, le soddisfazioni aumentano. A diciannove anni appena compiuti, Angelo si ritrova titolare al posto di Tancredi, non più nelle grazie dell’allenatore. Dodici presenze, oltre al debutto internazionale (Roma-Norimberga di Coppa Uefa) e con l’Under 21 di Maldini (Turchia-Italia 2-2). Il tutto senza contratto. Peruzzi diventa ufficialmente professionista solo nei primi mesi del 1989. In estate, essendo chiaro che tenerlo in panchina è un lusso per la società e può risultare controproducente per l’interessato, è deciso il prestito al Verona. Lui risponde egregiamente, essendo regolarmente tra i migliori in campo pur nel contesto di un campionato finito con la retrocessione.
Il ritorno alla Roma sembra preludere al definitivo salto di qualità e, invece, coincide con la battuta d’arresto più amara. Dopo un Roma-Bari abbastanza insignificante, Angelo è trovato positivo all’esame antidoping. La sostanza proibita è la Fentermina contenuta nel Lipopill, un farmaco dimagrante. «È stata la peggior stronzata che ho fatto nel mondo del calcio: il Lipopill me lo diede un compagno, perché venivo da uno stiramento e non volevo farmi di nuovo male, ma quando la Roma mi disse di fare ricorso dissi di no. Ho sbagliato, ho pagato con un anno di squalifica ed è stato giustissimo. Poi ebbi un paio di discussioni con i dirigenti della Roma, solo il presidente Viola mi difese».
Il 13 ottobre arriva la condanna della Commissione Disciplinare, confermata poco dopo dalla CAF: un anno di squalifica, una mazzata tremenda per un ragazzo che ha peccato solo per ingenuità: «Questa esperienza mi ha trasformato. Non sono più il compagnone di prima, faccio più fatica a fidarmi della gente». Inutile aggiungere che sono mesi terribili, soprattutto i primi: «Se ho resistito, se non sono impazzito, lo devo soprattutto all’affetto dei miei familiari».
Il tempo passa lentamente, ma passa e finisce per portarlo alla Juventus: «È stata la mia salvezza. Non c’è voluto molto a capire che non potevo rimanere alla Roma. La prospettiva era la panchina, perché la società puntava ancora su Cervone.

E poi, diciamo la verità: a qualcuno non interessava che io rimanessi, anzi».
Nel luglio del 1991, le amarezze cominciano a essere archiviate. In agosto, poi, il sole buca finalmente le nubi. Angelo ottiene una deroga per poter disputare le amichevoli e scende in campo a Padova: non sta nella pelle dalla gioia, è un piacere vederlo saltare fra i pali. La fine del tunnel è vicina, il 13 ottobre è salutato con un brindisi, ma le date storiche sono altre. Il 12 febbraio 1992, per esempio, giorno di Juventus-Inter di Coppa Italia, prima partita da titolare. Che la ruota della fortuna stia cambiando direzione lo dimostra anche il rigore calciato da Matthäus sul palo. E poi il 18 aprile: in Roma-Juventus, Angelo esordisce come numero uno in campionato. Un’altra prestazione da applausi, ma la conferma che Peruzzi non ha perso nessuna delle qualità durante la lunga sosta, era venuta già qualche giorno prima, nella semifinale di Coppa Italia contro il Milan. Angelo era stato il migliore in campo e aveva anche parato un rigore a Baresi.
Arriva l’annuncio ufficiale da parte dell’allenatore bianconero Trapattoni: «Mi dispiace per Tacconi, ma da oggi il numero uno della Juventus sarà Peruzzi», con la quale resterà otto stagioni, nelle quali colleziona 301 presenze e vince tre scudetti, una Coppa Italia, una Champions League, una Coppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Europea e due Supercoppe Italiane, entrando di diritto nella Hall of Fame dei portieri bianconeri.
«L’Avvocato ogni tanto chiamava, sempre alle sette, sette e dieci: la prima volta risponde mia moglie e mi dice: “C’è uno che vuole prenderti in giro, dice che chiama da Casa Agnelli”, ho messo giù. Ma poi richiamano e rispondo io: dopo dieci minuti di attesa, venne davvero lui al telefono. Mi domandava sempre: “Quanto pesi?”. Una volta venne a vedere un allenamento con Gorbačëv e da dietro la porta mi chiese: “Quanti rigori pareresti a Platini?”. Ed io: “Presidente, tre o quattro”. E lui mi fa: “Io penso nessuno”. Dopo un Empoli-Juve mi chiama: “Forse quella è stata la parata più bella che lei ha fatto alla Juventus”. In realtà avevo preso goal. In quel momento non me ne resi conto, io mi girai e chiesi a quelli della Croce Rossa dietro la porta: risposero che era entrata di venti centimetri. Volevo dire tutto a fine partita, non andai io in conferenza stampa».
Nel 1999 si trasferisce all’Inter, richiamato dal vecchio allenatore della Juventus, Marcello Lippi. Le cose non vanno benissimo, l’anno dopo Angelo cambia casacca, va alla Lazio.
Portiere completo sia tra i pali sia in uscita, di grandissima esperienza e di notevole forza fisica. Poderoso, compatto e con fasce muscolari larghe che gli consentono prodigiosi gesti atletici sul breve, si esalta nei tiri ravvicinati, dove fa valere la propria prontezza di riflessi e il notevole colpo di reni. Forse troppo saggio, troppo poco personaggio e, di rimbalzo, una non totale convincente capacità di guidare la difesa, ma anche la simpatia e lo scanzonato distacco con cui ha vissuto il nostro calcio isterico. Peruzzi è il padrone assoluto dell’area di rigore, è capace di stare a quindici metri dalla porta con la stessa disinvoltura con cui sta tra i pali: la sua capacità di uscire dall’area sull’avversario lanciato, permette alla squadra di giocare con grande disinvoltura, risultando perciò determinante. Unico limite: le notevoli masse muscolari che, continuamente sollecitate, sono soggette a qualche malanno di troppo.
Con la Nazionale esordisce il 25 marzo 1995, a Salerno, nella partita Italia-Lituania 4-1, con la quale, però, non raggiunge mai la consacrazione sperata, causa anche un infortunio che lo estromise alla vigilia dei Mondiali del 1998 in cui partiva come titolare. L’unica competizione importante è l’Europeo del 1996 che termina in malo modo per l’Italia, prima del trionfo Mondiale del 2006, che Angelo sente suo, nonostante non scenda mai in campo. «Nel 2000 mi sentivo forte, avevo fatto una grande stagione all’Inter così quando Zoff mi disse che sicuramente non avrei giocato, gli disse che non mi andava di fare il terzo portiere. Poi Buffon si fece male e Toldo giocò benissimo. Finito all’Europeo, sia io che Zoff andammo alla Lazio e lui mi disse che ero stato stupido, che alla fine magari avrei giocato io. Nel 2006 a Lippi dissi di sì, perché lui mi chiamò per fare il secondo di Buffon. Finita la partita, festeggiammo come pazzi, poi siamo rientrati negli spogliatoi. Ero molto legato a Zidane, così andai a trovarlo, lui era lì che fumava una sigaretta, non abbiamo parlato dell’episodio».