Sotto la lente - La pillola nel caffè? Solo un petardo

13.11.2015 02:20 di  Carmen Vanetti  Twitter:    vedi letture
Sotto la lente - La pillola nel caffè? Solo un petardo
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© foto di Imago/Image Sport

Ci sono notizie che si abbattono sul mondo del calcio come bombe e altre invece che come la neve non fan rumore.

L’esempio più lampante è naturalmente Calciopoli, i cui titoli a caratteri cubitali, non importa se  rispettosi o meno del vero, hanno bombardato le coscienze  di chi doveva essere orientato con palle di cannone per anni, perpetuando nel tempo evidenti fatti storici come il Paparesta prigioniero nello stanzino del Granillo.

Ce ne sono altre che, pur contenendo in nuce le stimmate di potenziali bombe, sono state presto degradate a petardi: l’esempio più classico è quello del calcio scommesse, con le sue mele marce che continuano a convivere, tutt’al più dopo una breve quarantena, con quelle sane.

Altrettanto evidente il caso che riguarda il doping: ricordiamo tutti l’esecrazione che fu scagliata sulla Juve ai tempi del  cosiddetto ‘affare doping’: intendiamoci, nessun giocatore bianconero venne trovato positivo a nessun controllo antidoping, tutto prese le mosse dal aftto che tale Zdenek Zeman, un boemo cui Gianni Agnelli ebbe a dire che mai gli avrebbe affidato la sua squadra perché non gli piaceva il suo modo di allenare,  nel 1998  cominciò a blaterare di un calcio che doveva uscire dalle farmacie; e avanzò sospetti sull’aumento delle masse muscolari di Vialli e Del Piero (ricordiamo che erano gli anni del preparatore Ventrone, che puntava  molto sul lavoro muscolare in palestra orientato alla potenza). Eppure ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra': in effetti  bisogna dire che la Lazio di Zeman (1994-98) era una squadra che basava la sua forza proprio sulle qualità fisico-atletiche, ben supportate dall’uso di quella creatina che lui condannava in casa d’altri; lo riconobbero alcuni dei suoi giocatori, da Negro a Favalli, e l’imperturbabile boemo rispose che di essersi limitato ad assecondare un andazzo. Fatto sta che il pm torinese Guariniello colse la palla al balzo e aprì un’inchiesta: la Juve, i suoi dirigenti e soprattutto il suo staff medico finirono  sul banco degli imputati e infamati sulle prime pagine dei giornali, anche se poi alla fine la Juve venne prosciolta (la sbandierata prescrizione riguarda solo le manchevolezze riscontrate dalla Cassazione, che giudica sul diritto e non sul fatto, nelle motivazioni del secondo grado per l'assoluzione relativa all'abuso di farmaci leciti; per l'epo l'assoluzione fu totale e perentoria); rimasero però  gli anni di gogna mediatica e il danno di immagine.

Repetita iuvant.

Ricordiamo questa faccenda perché di questi tempi il problema doping è tornato d’attualità non solo per lo scandalo che ha colpito il mondo dell’atletica a livello internazionale, ma anche per il riaffiorare di una vicenda che si è sempre tentato di seppellire. Una storia che risale agli anni Sessanta, ambientata nell’Inter di Helenio Herrera, quella che vanta nel palmarès  tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali; ma anche quella che aveva nel caffè il suo tigre nel motore: caffè corretto, stando a quanto rivelò Ferruccio Mazzola, figlio di Valentino e fratello del più famoso Sandro; lo scrisse nel suo libro, inutilmente querelato dall’Inter.

Lasciamo parlare  lui: “Ho vissuto in prima persona le pratiche a cui erano sottoposti i calciatori. Ho visto l’allenatore, Helenio Herrera, che dava le pasticche da mettere sotto la lingua. Le sperimentava sulle riserve (io ero spesso tra quelle) e poi le dava anche ai titolari. Qualcuno le prendeva, qualcuno le sputava di nascosto. Fu mio fratello Sandro a dirmi: se non vuoi mandarla giù, vai in bagno e buttala via. Così facevano in molti. Poi però un giorno Herrera si accorse che le sputavamo, allora si mise a scioglierle nel caffè. Da quel giorno ‘il caffè’ di Herrera divenne una prassi all’Inter. Con certezza non lo so, ma credo fossero anfetamine. Una volta dopo quel caffè, era un Como-Inter del 1967, sono stato tre giorni e tre notti in uno stato di allucinazione totale, come un epilettico” (Il terzo incomodo, 2004).

Venne osteggiato  anche dal fratello Sandro,  nonostante le sue parole fossero suffragate   da esempi  convincenti e particolareggiati che raccontavano di morti precoci, quelle, ad esempio,  di Picchi, Tagnin, Bicicli, Miniussi, cui sarebbero seguite quelle di Longoni e Masiero fino a Giacinto Facchetti nel 2006.

Col passar del tempo però anche Sandro Mazzola sembra  aver cambiato idea e in una recente intervista al Corriere dello Sport, ha dichiarato:  “Io ad un certo punto cominciai ad avere, in campo, dei fortissimi giramenti di testa. Andai dal medico che mi fece fare tutte le analisi e mi disse che dovevo fermarmi, che avevo problemi grossi. Mi disse che dovevo stare fuori almeno sei mesi. Ma questo Herrera non lo voleva. Da dove nascevano quei valori sballati? Non lo so. Ma so che, prima della partita, ci davano sempre un caffè. Non so cosa ci fosse dentro. Ricordo che un mio compagno, Szymaniak, mi chiese se prendevo la simpamina. Io non sapevo cosa fosse ma qualcosa che non andava, qualcosa di strano, c’era”.

Qualche giorno dopo in verità lo stesso Mazzola ha tentato di gettare un po’ d’acqua sul fuoco minimizzando e arrampicandosi sugli specchi con l’affermazione che comunque l’importante era saper giocare; resta però il grave problema della tutela della salute dei  calciatori, in un’epoca in cui i controlli non erano quelli che ci sono ora.

In casa nerazzurra, peraltro, stando a dichiarazioni di protagonisti, il problema sembra essersi perpetuato anche più avanti, se dobbiamo credere a Georgatos, che ha militò nell’Inter tra il 2000 e il 2003 e che nel 2006 dichiarò: “Ho visto giocatori prendere pillole e fare iniezioni, c’erano gruppi di persone che rifornivano i giocatori”.

Problema che, bisogna dirlo, come ebbe a confermare lo stesso Ferruccio Mazzola  avendolo verificato nel peregrinare della sua carriera, accadeva anche altrove, per esempio in Fiorentina (un’altra società particolarmente falcidiata da Atropo) e Lazio.

E un’altra bandiera nerazzurra, Bergomi, tempo fa, si disse “preoccupato per quei farmaci che ho preso o che mi hanno dato”; precisò poi di riferirsi solo a farmaci come il Micoren, un analettico bronco dilatatorio che comunque, se preso come puro spaccafiato, può rivelarsi decisamente pericoloso. 

Resta il fatto che tante morti e tante tristi vicende di ex calciatori ammalatisi non solo di tumore, ma anche di Sla o di patologie cardiache, sono sempre cadute leggere come neve, al massimo con lo scoppio di qualche petardo;  nella vicenda della Juve, dove non c’era comunque nessun riscontro a livello delle condizioni di salute dei giocatori, ma solo la visione zemaniana di qualche muscolo sviluppato, scoppiò la bomba.

Se il valore primario è, come dovrebbe essere, la tutela della salute degli atleti, anche a prescindere da  quelli che siano stati i risultati sportivi, forse il mondo del calcio non avrebbe dovuto appendersi ai vaniloqui di Zeman ma cominciare, qualche decennio prima, a ficcare il naso nelle ‘farmacie’ di tutte le società. E dove bomba c’era bomba scoppiasse.