Carlo Nesti: "1963: io, al derby Juve-Toro, con 2 bandiere!"
27 ottobre 1963: il giorno nel quale entrai allo Stadio Comunale di Torino
con una bandiera, e uscii con un'altra. Messa giù così, sembrerebbe la
rievocazione di un "tradimento", di un voltafaccia ipocrita e vigliacco. Per
me, invece, fu il momento in cui, a 8 anni, il calcio mise a nudo 2 anime.
Si giocava il derby della città: Juventus contro Torino. Partii di casa,
orgogliosamente, con la bandiera bianconera. E Juve, per me, era papà, colui
che, per primo, mi aveva trasmesso la passione per il pallone. Ero
innamorato del suo modo di tifare, appassionato, competente, equilibrato e
civilissimo.
Lui era italiano, ma era nato a Smirne, aveva vissuto la gioventù sulla
meravigliosa isola di Rodi, aveva combattuto in Jugoslavia, e aveva girato
la penisola, prima di arrivare a Torino, fermarsi, e conoscere mamma. Si era
divertito, ma aveva dovuto lavorare e sudare per vivere una vita più che
decorosa.
Il suo legame con la Juve non era quello elitario dell'alta borghesia
cittadina, ma, casomai, quello dell'emigrante, residente in una nostra
colonia, che vedeva la squadra come simbolo tricolore. E, soprattutto,
quello di chi ne apprezzava lo "stile", il rispetto, comunque,
dell'avversario.
Tifare Juve, dunque, era per me il primo contatto con la "cultura sportiva".
Altri, nell'epoca di Boniperti, Charles e Sivori, avrebbero magari insegnato
ai figli il "dovere" di vincere. Lui, invece, mi spiegò, ricordando quanto i
giocatori avevano sofferto contro il Grande Torino, la virtù del "saper
perdere".
Anche quel giorno, la Juve, seppure in fase calante, non si smentì: 3-0 in
meno di mezz'ora, con gol al 3' di Nenè, al 29' Del Sol, e al 32' di Sivori.
Per me, debuttare in un derby così, e saltare per 3 volte fra le braccia di
papà, fu una gioia indescrivibile. La vittoria, meritata, del più forte.
Poi, però, i miei occhi di bambino di 8 anni, un po' annoiati da una partita
ormai decisa, cominciarono a guardarsi intorno. Incrociai lo sguardo triste
di altri coetanei, mortificati, con la bandiera granata del Toro arrotolata
fra le gambe. E iniziai a isolarmi da tutto il resto, e a pensare...
Qualche anno prima, quando ero ancora più piccolo, i genitori mi lasciavano
a casa di nonna, il sabato sera, per andare al cinema. Mamma, nonna, la
sorella della nonna, zia Caterina, e, soprattutto, zio Felice erano tifosi
del Toro. Come potevo essere insensibile al formidabile accerchiamento?
Non c'era occasione in cui zio, scapolo impenitente, prima di uscire per la
sua "notte brava" da play boy, non raccontasse le imprese del Grande Torino,
il modo di giocare, entusiasmante e vincente, di Valentino Mazzola e
compagni. A me sembravano fiabe bellissime, sempre con un roseo finale.
Poi, arrivò la sera in cui lui smise di sorridere, e narrò di un pomeriggio
cupo di maggio, di una collina di nome Superga, e dello schianto di un
aereo. Io, all'inizio, pensai che zio non avesse voglia di raccontare, o che
fosse cominciata un'altra favola più triste, popolata di orchi e di streghe.
Poco alla volta, compresi che non era così. Dopo centinaia di partite
travolgenti, la fiaba si concludeva con il grande "uccello", in volo da
Lisbona a Torino, dalle ali spezzate. Perché? Perché? Perché? Per un
bambino, non ancora in grado di capire cosa significava "destino", fu
difficile accettarlo. Molto difficile.
Così, quando scoppiò una rissa selvaggia, e il capitano del Toro Ferrini
rincorse per il campo la stella Sivori, che lo scherniva, per scalciarlo,
riaffiorò nella memoria quella storia. E soprattutto la rabbia di chi, 14
anni prima, aveva perso tutti i suoi "idoli", "eroi" di un fumetto vero.
Senza gettare via la bandiera della Juve, ma semplicemente, appoggiandola
sotto la sedia, pretesi da papà, allibito, che acquistasse la bandiera del
Toro. E feci una scenata tale, gridando e piangendo, che, alla fine, fu
costretto ad accontentarmi. Non poteva sapere cosa era successo dentro di
me.
A 3 minuti dallo scadere, Hitchens segnò il gol dell'1-3, e lo festeggiai
come se fosse la rete della vittoria, ritrovando la letizia sul viso di quei
bambini tristi. Papà, fischiettando per mascherare limbarazzo, fu costretto
a riaccompagnare a casa un figlio con 2 bandiere, soddisfatto di essersi
sdoppiato.
Per tutta l'adolescenza, tifai per la Juve, e fu un amore intenso. Ma poi,
cominciando il mestiere di giornalista, conoscendo entrambi gli ambienti, le
passioni si mescolarono insieme, abbandonai il tifo, e diventai un
"simpatizzante" a "sangue misto", sedotto dalla grande storia di entrambe le
squadre.
In quel "modo di essere", certo poco comprensibile per i tifosi-standard,
c'era una ricchezza che varcava i confini del pallone. La Juve era, dentro
di me, la "ragione", la consapevolezza di valere, lo "stile" (almeno prima
di Calciopoli) nell'evitare gli eccessi, nella ricerca del successo.
Il Toro, invece, era l'"istinto", il "revanscismo", e cioè la smania
costante del riscatto, per qualcuno di insostituibile che il fato ti aveva
portato via per sempre. E tutte le volte in cui anch'io mi sentivo privato,
ingiustamente, di qualcosa, mi coloravo di granata. Insomma: dottor Jekill e
Mister Hyde.
Ho incontrato spesso lostilità di chi non ha mai accettato che non fossi
"schierato". Ma ho conosciuto pure la stima di chi ha apprezzato
lobbiettività. E sono cresciuto tendenzialmente razionale, ma anche
attraversato da raffiche di passionalità. Vampate d'ira? Sì, se no, non
sarei stato me stesso.
(DAL LIBRO IL MIO CIRCUITO SI CHIAMA PARADISO, EDIZIONI SAN PAOLO)
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