Carlo Nesti: "1963: io, al derby Juve-Toro, con 2 bandiere!"

28.04.2015 16:35 di  Redazione TuttoJuve  Twitter:    vedi letture
Carlo Nesti: "1963: io, al derby Juve-Toro, con 2 bandiere!"
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27 ottobre 1963: il giorno nel quale entrai allo Stadio Comunale di Torino

con una bandiera, e uscii con un'altra. Messa giù così, sembrerebbe la

rievocazione di un "tradimento", di un voltafaccia ipocrita e vigliacco. Per

me, invece, fu il momento in cui, a 8 anni, il calcio mise a nudo 2 anime.

 

Si giocava il derby della città: Juventus contro Torino. Partii di casa,

orgogliosamente, con la bandiera bianconera. E Juve, per me, era papà, colui

che, per primo, mi aveva trasmesso la passione per il pallone. Ero

innamorato del suo modo di tifare, appassionato, competente, equilibrato e

civilissimo.

 

Lui era italiano, ma era nato a Smirne, aveva vissuto la gioventù sulla

meravigliosa isola di Rodi, aveva combattuto in Jugoslavia, e aveva girato

la penisola, prima di arrivare a Torino, fermarsi, e conoscere mamma. Si era

divertito, ma aveva dovuto lavorare e sudare per vivere una vita più che

decorosa.

 

Il suo legame con la Juve non era quello elitario dell'alta borghesia

cittadina, ma, casomai, quello dell'emigrante, residente in una nostra

colonia, che vedeva la squadra come simbolo tricolore. E, soprattutto,

quello di chi ne apprezzava lo "stile", il rispetto, comunque,

dell'avversario.

 

Tifare Juve, dunque, era per me il primo contatto con la "cultura sportiva".

Altri, nell'epoca di Boniperti, Charles e Sivori, avrebbero magari insegnato

ai figli il "dovere" di vincere. Lui, invece, mi spiegò, ricordando quanto i

giocatori avevano sofferto contro il Grande Torino, la virtù del "saper

perdere".

 

Anche quel giorno, la Juve, seppure in fase calante, non si smentì: 3-0 in

meno di mezz'ora, con gol al 3' di Nenè, al 29' Del Sol, e al 32' di Sivori.

Per me, debuttare in un derby così, e saltare per 3 volte fra le braccia di

papà, fu una gioia indescrivibile. La vittoria, meritata, del più forte.

 

Poi, però, i miei occhi di bambino di 8 anni, un po' annoiati da una partita

ormai decisa, cominciarono a guardarsi intorno. Incrociai lo sguardo triste

di altri coetanei, mortificati, con la bandiera granata del Toro arrotolata

fra le gambe. E iniziai a isolarmi da tutto il resto, e a pensare...

 

Qualche anno prima, quando ero ancora più piccolo, i genitori mi lasciavano

a casa di nonna, il sabato sera, per andare al cinema. Mamma, nonna, la

sorella della nonna, zia Caterina, e, soprattutto, zio Felice erano tifosi

del Toro. Come potevo essere insensibile al formidabile accerchiamento?

 

Non c'era occasione in cui zio, scapolo impenitente, prima di uscire per la

sua "notte brava" da play boy, non raccontasse le imprese del Grande Torino,

il modo di giocare, entusiasmante e vincente, di Valentino Mazzola e

compagni. A me sembravano fiabe bellissime, sempre con un roseo finale.

 

Poi, arrivò la sera in cui lui smise di sorridere, e narrò di un pomeriggio

cupo di maggio, di una collina di nome Superga, e dello schianto di un

aereo. Io, all'inizio, pensai che zio non avesse voglia di raccontare, o che

fosse cominciata un'altra favola più triste, popolata di orchi e di streghe.

 

Poco alla volta, compresi che non era così. Dopo centinaia di partite

travolgenti, la fiaba si concludeva con il grande "uccello", in volo da

Lisbona a Torino, dalle ali spezzate. “Perché? Perché? Perché?” Per un

bambino, non ancora in grado di capire cosa significava "destino", fu

difficile accettarlo. Molto difficile.

 

Così, quando scoppiò una rissa selvaggia, e il capitano del Toro Ferrini

rincorse per il campo la “stella” Sivori, che lo scherniva, per scalciarlo,

riaffiorò nella memoria quella storia. E soprattutto la rabbia di chi, 14

anni prima, aveva perso tutti i suoi "idoli", "eroi" di un fumetto vero.

 

Senza gettare via la bandiera della Juve, ma semplicemente, appoggiandola

sotto la sedia, pretesi da papà, allibito, che acquistasse la bandiera del

Toro. E feci una scenata tale, gridando e piangendo, che, alla fine, fu

costretto ad accontentarmi. Non poteva sapere cosa era successo dentro di

me.

 

A 3 minuti dallo scadere, Hitchens segnò il gol dell'1-3, e lo festeggiai

come se fosse la rete della vittoria, ritrovando la letizia sul viso di quei

bambini tristi. Papà, fischiettando per mascherare l’imbarazzo, fu costretto

a riaccompagnare a casa un figlio con 2 bandiere, soddisfatto di essersi

sdoppiato.

 

Per tutta l'adolescenza, tifai per la Juve, e fu un amore intenso. Ma poi,

cominciando il mestiere di giornalista, conoscendo entrambi gli ambienti, le

passioni si mescolarono insieme, abbandonai il tifo, e diventai un

"simpatizzante" a "sangue misto", sedotto dalla grande storia di entrambe le

squadre.

 

In quel "modo di essere", certo poco comprensibile per i tifosi-standard,

c'era una ricchezza che varcava i confini del pallone. La Juve era, dentro

di me, la "ragione", la consapevolezza di valere, lo "stile" (almeno prima

di Calciopoli) nell'evitare gli eccessi, nella ricerca del successo.

 

Il Toro, invece, era l'"istinto", il "revanscismo", e cioè la smania

costante del riscatto, per qualcuno di insostituibile che il “fato” ti aveva

portato via per sempre. E tutte le volte in cui anch'io mi sentivo privato,

ingiustamente, di qualcosa, mi coloravo di granata. Insomma: dottor Jekill e

Mister Hyde.

 

Ho incontrato spesso l’ostilità di chi non ha mai accettato che non fossi

"schierato". Ma ho conosciuto pure la stima di chi ha apprezzato

l’obbiettività. E sono cresciuto tendenzialmente razionale, ma anche

attraversato da raffiche di passionalità. Vampate d'ira? Sì, se no, non

sarei stato me stesso.

 

 

(DAL LIBRO “IL MIO CIRCUITO SI CHIAMA PARADISO”, EDIZIONI SAN PAOLO)

 

 

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