Gli eroi in bianconero: Massimo MAURO

La rivisitazione di alcune partite giocate dalla Juventus; storie di vittorie e di sconfitte per riassaporare e rivivere antiche emozioni
24.05.2017 10:30 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Massimo MAURO
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Catanzaro, Udinese, Juventus, Napoli: la nascita (in tutti i sensi, dai primi vagiti il 24 maggio 1962 ai primi calci, alla Serie A con Catanzaro-Milan 0-3 del 27 aprile 1980), la prima affermazione fuori casa, la consacrazione, il tramonto. Massimo Mauro alla prima stagione nella Juventus vince subito uno scudetto e una Coppa Intercontinentale. È uno dei protagonisti del rinnovamento, della squadra che doveva essere sperimentale e che con il suo lungo sprint e qualche affanno mette in cassaforte il ventiduesimo titolo italiano. Trapattoni a Talamone, il suo feudo vacanza, nel luglio 1985, dice: «Mauro sarà importante. Lo aspetto come uomo cross, ma anche come prezioso elemento di raccordo. Le sue doti di palleggio sono note oramai, con lui e gli altri faremo un buon lavoro». Mauro non arriva molto sul fondo a crossare, va detto, ma il lavoro di raccordo in questa Juventus che si è scoperta da sola, partita per partita, è via via più importante.
Sulla destra della squadra, punto di riferimento costante, puntuale, importante, c’è sempre Mauro. Pronto a ricevere la palla, a difenderla, ad aspettare l’arrivo del compagno, a prendere tempo, a partire. Il fisico robusto lo rende non troppo veloce, ma alla carenza di sprint il bianconero supplisce con la padronanza del palleggio. I primi due anni sono molto positivi per Massimo, soprattutto il primo quando contribuisce con ottime prestazioni alla conquista dello scudetto e della Coppa Intercontinentale. Non segna tanto (solamente sette reti nelle 150 partite disputate in bianconero), ma quasi tutti goal decisivi: come quello che spiana la strada al successo sulla Roma del 10 novembre 1985 o la rete di apertura nella vittoria scudetto a Lecce dello stesso anno. Ancora il pareggio ad Avellino nella stagione successiva. «Preferivo l’assist al goal, anche perché quando mi avvicinavo alla porta questa si rimpiccioliva. Per questo mi veniva più facile mettere in condizione il mio compagno di tirare a rete. Quando sono arrivato a Torino mi hanno subito paragonato a Causio, ma io non avevo la velocità per essere un grandissimo in quel ruolo, avevo l’intelligenza per essere un buon giocatore».
La sua intelligenza tattica e le sue doti tecniche lo rendono un elemento quasi indispensabile. Poi, il rendimento cala, anche a causa di qualche problema fisico di troppo. Viene impiegato spesso come centrocampista centrale, avendo perso quasi del tutto lo spunto per saltare l’uomo.
«Settembre del 1984 – racconta – mi telefona il presidente Viola e mi dice che vuole conoscermi. Pranzo a casa sua, il pomeriggio firmo un contratto di tre anni. Ma l’Udinese non sapeva niente. Scoppia un casino inaudito ed io mi diverto da matto. Nella trattativa si inserisce la Juve. Il 15 dicembre Mazza mi chiama: “Qui c’è il contratto firmato con la Juve, se rifiuti vai dove vuoi”. E come si rifiuta la Juve? Viola tornò alla carica con l’Udinese. “Vedi di andare alla Roma”, mi dice Mazza perché evidentemente Viola aveva rilanciato. Io invece vado alla Juve. Incontro Boniperti a Grado, in un appartamento freddo, il presidente si informa sulla mia vita privata: capelli lunghi, fidanzata. E mi chiede se avevo mal di schiena. Lo rassicuro e firmo. L’impatto con la Juventus è stato bellissimo. Ho trovato Cabrini, mio avversario diretto per cinque anni. Boniperti ci diceva: “Non mi interessa che siate amici, ma voglio che in campo vi rispettiate”. Con Brio non sono mai andato a cena, ma se devo citare un esempio di serietà, di attaccamento alla maglia, di correttezza dico Brio e ovviamente Scirea. Alla Juve ho commesso un errore, quello di decidere di andare via. Ma un conto era giocarsi il posto con Platini e Vignola, un altro con Rui Barros, Zavarov e Magrin”.
Massimo lascia la Juventus nell’estate del 1989. Destinazione Napoli, dove incontrerà il terzo genio della sua carriera: dopo Zico («umiltà, ragionamento e classe, un modello di bravura e di dedizione, un giocatore universale»), Michel Platini («furbo e intelligente, un uomo squadra che creava il gruppo e lo rendeva unito») ecco Diego Armando Maradona («è stato il calcio e lo trasformava in poesia, nel teatro di ogni meraviglia possibile»). Nel 1993, a soli trentuno anni, l’improvviso ritiro: «Avevo un problema serio alla schiena, me lo portavo dietro da quando ero bambino. Per fortuna sono sempre riuscito a nasconderlo, ma che mi impediva di giocare come volevo e potevo. Inoltre, mi ero accorto di essermi stancato dei ritiri e degli allenamenti».
Persona molto intelligente, quello che ha dentro lo racconta a cuore aperto: «Non è un mondo facile, quello del calcio: ti stressa, ti violenta, ti impone gente che non conosci, cerca di importi giochi che non vorresti giocare, e devi stare attento, è facile sbagliare. Se gratti via la superficie è un mondo non più dorato ma difficile, ti devi difendere se ti piace giocare, fare carriera, divertirti in campo. Che poi, a pensarci bene, io mi divertirei solo con undici amici in piazza; alla domenica non sono spensierato, voglio vincere. Sono così, anche da bambino, giocavo alle biglie, spesso vincevo, quando non capitava diventavo una belva, non scherzo. Nel calcio italiano ti diverti se vinci, hai mille responsabilità addosso, se quando giochi pensi a troppe cose meglio starsene in spogliatoio: il segreto del calciatore è riuscire a isolarsi, per poi entrare dentro, e vincere, e basta. Mondo strano, dicevo, che ha molti lati negativi e molti positivi. La cosa più stupida sono le pagelle con i voti, ma le guardiamo tutti, io per primo, e magari ci rimaniamo male. C’è altro, sì c’è anche altro, a volte compagni che non capisco, a volte un po’ di malinconia. Ma fa parte del gioco, come fa parte del gioco questo giro di trattative, di voci. Io non mi sento carne da macello, se parlano di soldi e di quanto valgo: bene, se mi pagano tanto vorrà dire che guadagnerò di più, io sono entrato nel meccanismo, ho deciso di fare questo mestiere, chi si lamenta e non ama la parola mercato, perché non lo dice chiaro e non fa un’altra cosa?».