Gli eroi in bianconero: Josè ALTAFINI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
24.07.2016 10:24 di Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Josè ALTAFINI
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© foto di Federico De Luca

Nasce a Piracicaba, in Brasile, il 24 luglio 1938. In patria è soprannominato Mazola, in onore del capitano del Grande Torino; appena ventenne è convocato in Nazionale, per i Mondiali svedesi del 1958, ma esplode un diciassettenne di nome Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, e Altafini deve guardare i compagni giocare dalla panchina. Quel Mondiale, però, lo rende famoso e arriva in Italia, al Milan, dove vince due scudetti e una Coppa dei Campioni, vinta a Londra sul Benfica grazie ai suoi goal. Poi, il feeling si logora, a ventisette anni José, carico di onori e di qualche polemica sulla sua presunta poca combattività (è definito da Gipo Viani un coniglio) finisce a Napoli, a far coppia con un altro ex grandissimo esiliato d’oro, Omar Sivori. Sono altri anni di gloria monumentale: insieme al Cabezón scrive pagine indimenticabili della storia del club partenopeo, arrivando a sfiorare lo scudetto.
José è un fanciullo mai cresciuto, ha il cuore ovunque e una valigia sempre pronta con camicie e pigiama, un giramondo che vive alla giornata, ma che costruisce il futuro con astuzia. Interpreta il calcio come un pioniere romantico, il professionismo gli dà quasi un senso di noia. Ma davanti a un pallone si diverte un mondo, in allenamento come in partita. E l’obiettivo è soltanto uno: trafiggere i portieri, in che modo non importa, basta che il pallone gonfi la rete.
A trentaquattro anni, José, non ha nessuna voglia di smettere di giocare ed è acquistato da Boniperti. La sfida è molto stimolante: la Juventus, che lo prende come panchinaro di lusso per titolari che si chiamano Bettega e Anastasi, vuole bissare lo scudetto numero quattordici, il primo di Vycpálek, e provare seriamente a vincere la Coppa dei Campioni. La scommessa di José è vinta, il vecchio ragazzo ci sa ancora fare. Ventitré partite di campionato, intere o spezzoni, e nove reti; una più di Bettega e Causio, tre più di Anastasi che spesso gli deve lasciare il posto. E goal pesanti, come il 3 dicembre 1972, Juventus che rimonta e batte 2-1 la Fiorentina o il 21 gennaio 1973, Juventus che schioda lo 0-0 con la Roma e resta in corsa per la conferma tricolore. Per non parlare del goal allo stadio Olimpico, il 20 maggio 1973: Juventus che all’ultima di campionato insegue il Milan a un punto, Juventus che perde al riposo con la Roma, ma anche il Milan perde a Verona, ed ecco l’Altafini che ti aspetti, golletto di testa ed è 1-1, poi ci penserà Cuccureddu al 2-1 che entra nella leggenda.
«L’inizio non è stato dei più promettenti – racconta José – a causa di un eccesso di zelo da parte mia. Ci tenevo ad arrivare a Torino tirato il giusto e per questo, durante l’estate, seguii una dieta alimentare che poi, però, si rivelò eccessiva. I tre chili persi, penalizzavano oltre misura muscoli e gambe sicché, le mie prime apparizioni delusero i tifosi, anche perché dovevo sostituire un certo Roberto Bettega. Finii presto in panchina, finché mi sbloccai definitivamente con la rete del successo realizzata in Juventus-Fiorentina. E da lì, furono rose e fiori».
Altafini è anche re di coppa, salva la squadra dall’eliminazione Budapest, nei quarti di finale, segnando all’Újpest il goal della speranza, e poi travolge i britanni del Derby County in semifinale, con due goal e con una partita monumentale. Le speranze di vincere la Coppa dei Campioni si infrangono in finale, contro la grande Ajax di Cruijff.
L’anno dopo la Juventus non vince nulla, ma le presenze (ventuno) e i goal (sette) di José, si ripetono puntuali. E nel 1974-75 torna a frequentare la leggenda: a trentasette anni, segna otto goal in venti partite e, soprattutto, va in goal nella partita scudetto contro il suo Napoli, regalando l’ennesimo triangolino tricolore alla squadra bianconera.
José è un fenomeno di longevità e, per certi versi, ricorda Matthews, l’ala britannica che fu nominato baronetto dalla Regina di Inghilterra per meriti sportivi. Ma José si risparmia, ha il senso della parsimonia anche sul campo; entra per sostituire un compagno ed ha già i muscoli caldi. Tocca quattro palloni e al quinto fa piangere il portiere. Un gaudente della pedata, dotato di fantasia, tecnica, scatto fulmineo e potenza in progressione. Porta via il piede dai tackle dolorosi, ma lo mette nel momento della verità, come i grandi toreri.
Smette a trentotto anni, lo chiamano nonno. Ha ancora entusiasmi infantili, sorride e sogna ad occhi aperti, ma nella vita privata sa amministrarsi con giudizio e senso pratico. Lascia la Juventus nel 1976, ma non appende le scarpe al chiodo. Emigra in Svizzera, a Chiasso, poi fa il General Manager nel Senigallia, senza fortuna.
Racconta di se stesso: «Sono del segno del leone, come Napoleone; tutti i leoni sono grandi, intelligenti e buoni. Sono allegro, bonaccione, spensierato, giocherellone, pronto a dare un sacco di vivacità alla mia vita e a quelle persone a cui questa vivacità manca; io voglio bene alla gente, sono sempre disposto ad assecondare i loro pensieri e le loro idee, difficilmente contraddico qualcuno. Nella mia vita, non credo di aver mai fatto male a qualcuno; la mia fede è questa, siamo tutti uguali: il ricco, il povero, il bravo, l’onesto e il cattivo. A volte, penso che l’unico torto della mia vita è stato quello di non aver avuto tanta grinta; quando giocavo nel Milan, mi consideravano tutti un coniglio. Ora, a distanza di tanti anni, posso assicurare che un coniglio non lo sono mai stato; resto sempre un leone, con tutti i miei difetti e i miei pregi».
Ora lo troviamo a commentare le partite in televisione, con la stessa allegria di quando era in campo, con la stessa voglia fanciullesca di urlare meravigliato per un goal, anzi per un “Golasso”.