Ghelfi a Il Tirreno: "Ecco perchè non c'è partita con la Juve"

25.02.2017 14:45 di Redazione TuttoJuve Twitter:    vedi letture
Ghelfi a Il Tirreno: "Ecco perchè non c'è partita con la Juve"
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Il sito il tirreno.it. ha pubblicato l'intervista integrale all'ad Ghelfi. Eccola.

Lo spiega, numeri alla mano, l’amministratore delegato azzurro Francesco Ghelfi, che fa anche il punto sul sistema calcio, l’eventuale riforma dei campionati e i lavori allo stadio. «Se penso che la Juve ha vinto le ultime 29 partite in casa mi viene da chiedermi “ma di chi si parla?” Però le partite si giocano in campo e in campo può sempre succedere di tutto. Certo noi dovremo fare la partita perfetta – sottolinea il dirigente – e loro sbagliarla, ipotesi che reputo assai remota, ma almeno si parte da 0-0».

Già, sul campo. E fuori?

«In questo caso il confronto non è proprio proponibile. La Juve ha un fatturato che va dai 350 ai 400 milioni, noi di 50. Con il solo costo del cartellino di Higuain, 90 milioni, noi ci facciamo 3 stadi e ce ne avanzano pure 10 per fare la squadra. I ricavi dei bianconeri sono di 105 milioni, i nostri di 30 e perché abbiamo avuto la fortuna e il merito di arrivare decimi nello scorso torneo».

Dati impressionanti...

«Dati che spiegano anche perché, in Italia, contro 3 o 4 squadre sia difficile giocare».

E, in effetti, da più parti si parla di un campionato poco interessante.

«Capisco che per uno spettatore sia difficile appassionarsi. Ma con queste regole non ci può essere competizione. Lasciamo stare l’Empoli e prendiamo il Crotone, che è arrivato quest’anno in A: ha incassato 20 milioni e 3 li deve lasciare alla B. Se ne avesse avuti 10 in più scommetto che avrebbe più degli attuali 13 punti».

Quindi è un problema di spartizione dei ricavi?

«Soprattutto. È il sistema che non funziona. In Italia la forbice di introiti, fra diritti tv e contributi di Lega, fra le prima è l’ultima è di 5 a 1. In Inghilterra di 2 a 1. E non a caso, poi, il campionato lo vince il Leicester. Che, certo, ha saputo spenderli, i soldi. Ma ha avuto 100 milioni, non 20. Qui da noi, invece, se non cambieranno le cose per tanti anni ancora dovremo parlare dello scudetto del Verona. Roba che risale alla stagione 1984/1985».

Prevede miglioramenti?

«No. Se non cambiano le regola il gap aumenterà ancora. In Italia il 40% dei ricavi è legato ai risultati della stagione precedente, il 30% al bacino d’utenza e il 30% allo storico, cioé all’andamento degli ultimi 50 anni. È chiaro che, in questo contesto, società come l’Empoli ma anche il Sassuolo saranno sempre penalizzate. Che la Juve, che vince, abbia più contributi dagli altri dalla Lega o dalla tv può starci, ma con lo storico ci sono anche club rimasti fuori dall’Europa, come le due milanesi, che incassano più di 85 milioni».

Quindi il rapporto di forza non cambierà mai.

«Esatto. E come se fosse la Nba, solo che nel basket Usa non ci sono retrocessioni e chi arriva ultimo ha diritto a scegliere i più forti dai College. Sistemi di equilibrio che qui non esistono proprio».

La soluzione può essere, come detto da più parti, la riduzione della Serie A a 18?

«Assolutamente no. Se il sistema non cambia ci saranno meno squadre a spartirsi la torta, ma su un risparmio di 40 o 50 milioni ne toccheranno poco più di 2 a testa. E cosa può cambiare? Con la Serie B penalizzata come oggi, inoltre, chi viene promosso non ha la possibilità di essere competitivo. Non a caso squadre come Carpi, Frosinone, Crotone e Pescara hanno avuto o hanno difficoltà. E poi basta vedere quello che succede intorno a noi».

E cioè?

«In Europa i campionati più importanti sono a 20 squadre. Tranne la Germania, dove però c’è un problema di tempi visto che hanno la pausa invernale di 2 mesi. La verità è che 15 anni l’Italia era la prima in Europa, ora siamo al 3º o 4º posto. Evidentemente nella gestione c’è qualcosa che non va. E la campagna mediatica sulla riduzione delle squadre serve solo

E come se ne esce?

«Con una riforma seria del sistema. Che non deve riguardare il numero delle squadre ma la ripartizione delle risorse. Da anni sento parlare di una legge-Melandri bis, ma la sto ancora aspettando».

Pessimista?

«A dire la verità sono convinto che il ministro dello sport Luca Lotti stia portando avanti in buon lavoro. Ha parlato con tutte le società, grandi e piccole, e ho la sensazione che abbia chiare le problematiche del sistema calcio. Però niente esclude che la nuova legge posso restare incagliata in una crisi di governo, anzi mi sembra un’ipotesi tutt’altro che remota, e quindi che si debba ripartire da capo».

Quali potrebbe essere alcune soluzioni?

«Intanto legare il 50% dei ricavi ai risultati sportivi recenti, per premiare chi investe e cerca di fare le cose perbene. Rivedere la vendita dei diritti tv all’estero, che sta fruttando poco, magari trasmettendo anche partite in meno, come in Inghilterra, per riportare la gente allo stadio. Oppure dare dei soldi a chi vuole farsi lo stadio, perché un altro problema del nostro calcio è sicuramente legato alle strutture».

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A proposito di stadio, l’Empoli a che punto è?

«L’Empoli ora è nelle mani della burocrazia».

In che senso?

«Che il progetto è pronto, i partner ci sono tutti, il piano economico finanziario sta prendendo forma. Aspettiamo un responso dal Credito sportivo per il finanziamento».

Arriverà?

«Spero e penso di sì. Ho già avuto degli incontri con loro e posso assicurare che l’Empoli si è spinto al massimo. Magari ora servirebbe proprio una spinta dalla politica».

Cioé soldi?

Assolutamente no. È un’opera pubblica da 25 milioni, che un giorno tornerà al Comune, ma non mi sogno neanche di chiedere un contributo all’Amministrazione che ha certamente cose più importanti a cui pensare. Intendevo una spinta politica per allentare i lacci della burocrazia».

Pessimista?

«No, semmai stanco. Da mesi ci stiamo dedicando a questo progetto».

E i tempi?

«Ora sono nelle mani di altri. Entro metà marzo spero di avere il via libera dal Credito sportivo e, dunque, portare tutto in Comune. Ma ho già fatto l’errore di indicare tempi che poi per mille motivi si sono allungati. Quindi una data non la dico più».