DIEGO spinge la Juve: "Scudetto e Champions, possiamo farcela!"

Diego, domani comincia l’avventura: emozionato?
«Orgoglioso e felice. Anche se la prima volta che mi sono messo questa maglia, un po’ di emozione l’ho avuta. Ora penso a vincere, fin dalla prima partita, l’unica cosa che conta».
I tifosi già l’amano: se l’aspettava?
«Così no, davvero. È tutto perfetto: i tifosi, i compagni, il lavoro».
Da novello profeta dovrà portare lo scudetto: sente la pressione?
«Quando giochi in una squadra come la Juve non puoi fuggire dalle responsabilità. Ma qui ci sono grandi giocatori, ci stiamo allenando bene, stiamo attenti ai dettagli. L’obiettivo è lo scudetto, e lo sappiamo».
Lei ha detto che potete vincere anche la Champions: conferma?
«Sì, ci proviamo. Se sei la Juve non puoi giocare solo per partecipare e poi se giochiamo al nostro livello non dobbiamo avere paura di nessuno. Inutile dire di più: ora è tempo di lavorare, non di parlare».
Ha iniziato presto, a sei anni.
«Il pallone è sempre stato la mia vita. Prima a Ribeirao Preto, dove sono nato, poi nel San Carlos».
Primi idoli?
«Rai (fratello di Socrates, ndr). Giocava nel San Paolo, la squadra del cuore, quand’ero piccolo. Io e i miei amici facevamo di tutto per andare a vedere quelle partite».
Poi dentro gli stadi c’è entrato lei.
«A 11 anni andai nelle giovanili del Santos, e fu dura spostarsi lontano da casa, senza la famiglia, ma mi aiutò a crescere. A 16 l’esordio con i grandi, l’anno dopo vincemmo il campionato. Insieme a Robinho: grande squadra».
Lui non incanta, da tempo, ma è abbonato alla Nazionale, lei no: motivo?
«Non c’è nessun problema fisico o disciplinare, scelte di Dunga. Però mi metto io nel Brasile, alla Playstation».
Trequartista da sempre?
«Da subito, centrocampista offensivo, come diciamo in Brasile».
Sbirciava pure Zidane, raccontò.
«Un fenomeno, uno dei miei preferiti. Faceva giocate pazzesche, e sembrava fossero la cosa più semplice del mondo. Grandissima tecnica e uso del corpo super».
Lo utilizza benino anche lei: a San Siro ha spianato Gattuso e Flamini.
«Dovevo dar loro il pallone? È il mio stile di gioco, forza e tecnica, ho lavorato molto per questo. La mia missione è quella di portar palla in attacco, quella degli avversari di levarmela: mi capita da quando ho iniziato a giocare».
Ha rubato qualche segreto ai suoi eroi?
«Non sono uno che copia molto dagli altri. Guardavo le partite, i campioni, e mi piaceva, ma non ero uno di quelli che quando tornava ad allenarsi cercava di ripetere i colpi che aveva visto. Magari prendo ispirazione, ma poi seguo l’istinto».
Come quel gol all’Aachen?
«Il mio più bello, un tiro da oltre 60 metri. Mica facile, perché ci vuole precisione. Vidi il portiere fuori e pensai: “Ci provo”».
Come ha conosciuto la Juve?
«Dalla tv, in Brasile. Mi piaceva quella squadra di grandi giocatori, che volevano vincere. Sempre, tutto».
E quando l’ha scelta?
«Praticamente al primo incontro. Ho visto che c’era un piano, un progetto di squadra, ed è la cosa fondamentale. Poi è una delle più importanti del mondo».
Le manca il numero dieci?
«Mi piace tanto, non lo nego. Ma non è quello sulla schiena che ti fa fare gol e assist».
Perché il 28?
«A parte la somma, dieci, è la mia data di nascita. Va bene quello».
L’hanno pagata meno di Felipe Melo.
(sorride). «Chiedete a Blanc o Secco».
Pure molto meno di Ronaldo e Kakà: è così scarso o ha esagerato il Real?
«Ronaldo è il migliore del mondo, e se in futuro lo pagheranno 100 o 150 milioni va bene lo stesso. La verità, però, è che in campo non ci vanno i conti in banca».
Meglio un gol o un assist?
«Non dico bugie: il gol, il massimo del calcio. Poi so che il mio compito è anche quello di spedire in porta i compagni, e mi piace pure quello».
Al Porto passò mesi cupi: mai pensato di tornare in Brasile?
«Neppure una volta. E se sono arrivato fin qui è anche per quei momenti».
Che sogni insegue?
«Vincere con la Juve, e andare ai Mondiali. Vorrei davvero prenderli entrambi».