Gli eroi in bianconero: Luigi FORLANO

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
26.11.2010 09:00 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Luigi FORLANO

Luigi Forlano è il primo centravanti della Juventus. Giocava all’inglese, naturalmente, come tutti i calciatori di quell’esordio che imitavano gli inglesi. Non era calcio, era football. Non c’erano strategie, ma grandi rincorse. Il pallone era “ball” e lo inseguivano in frotte. Spesso incespicavano l’uno sull’altro. Spesso uscivano campanili sterminati. I pionieri, con la mano destra sulla fronte per proteggersi dal sole, seguivano la ricaduta del pallone. Spesso il pallone cadeva in mezzo ai prati che allora circondavano “Piazza d’Armi” a Torino (dove andavano i cavalli dell’esercito per il maneggio) e tanti saluti.


IL RACCONTO DI VLADIMIRO CAMINITI:

«Ricordo i primi compagni: i fratelli Canfari sempre allegri. Enrico fu il primo presidente, Luigi Forlano, il centravanti, un macigno, giocava con la lingua e con i muscoli, quando era in vena lui si vinceva sempre, quando non era in vena dipendeva dal fatto che non aveva potuto dormire. Il fratello non ammetteva di dovergli dare anche i soldi per il football, ed il sabato sera non gli apriva la porta di casa. Luigi dormiva sulle scale, prendeva l’umidità della notte, ci toccava andare all’alba a massaggiarlo per ore finche era ben sveglio. Ce ne accorgevamo quando apriva gli occhi e si strizzava i baffetti. Dovevamo massaggiarlo per bene, quel furbone. Poi gli davamo da mangiare e finalmente era pronto per partire con noi. Anche Luigi Forlano è morto in guerra come Enrico Canfari».

Fu un mattino degli anni sessanta che andai a intervistare quel lungagnone rancoroso, un terribile vecchio tutto spigoli. L’intervista ebbe luogo nel suo studio. Avvocato Bino Hess. Via Montecuccolo numero 1. Mi bastò salire appena un giro di scale per trovarmi dinanzi la prima Juventus, quella dei calzoni alla zuava, dei figli di papà che respingevano i discorsi troppo seri dei genitori per un futuro fatto anche di viaggi, di scoperta del mondo e dei sani piaceri dello sport.

La parola patria ammuffiva già tra vecchie scartoffie, il Novecento portava fremiti originali: «Non arrecavamo disturbo a nessuno, sapevamo vivere e divertirci senza far danno. Non facevamo chiassate per la pubblica via, sapevamo trovare il divertimento nelle cose semplici. C’era la vera democrazia dei sentimenti, non le chiacchiere vuote. Un Mazzonis, della migliore aristocrazia, andava a braccetto con Moschino che portava i telegrammi, era fattorino telegrafico. Andavo al ginnasio. Ero un gorba, ragazzo noioso».

Ricordo quel bastone e quella faccia ossuta e rancorosa. Ricordo che mi fece alzare da una sedia. «Sloggi da quella sedia. È mia!». Ero ospite inconsapevole di un vecchio uomo di sport agli ultimi giorni terreni, che sfogava i suoi rimpianti con acre tristezza. «La nostra Juventus. Fu una cosa ginnasiale, ma ebbe significati e valori profondi. Come può capirmi lei che appartiene ad una generazione casi stordita?»

Per i vecchi, i giovani, come minimo, sono dei superficiali. E Bino Hess era un vecchio acido, con i giorni che gli suonavano blasfemi. La sua Juve era ben un’altra cosa. Essa era poesia: «Non eravamo propriamente giocatori, eravamo sportsmen. Però c’era uno spirito sociale, un piacere di stare insieme. Quella Juventus era fatta di persone civili. Essere juventino voleva dire un favore, un onore. Voleva dire garbo, senso dell’humour, lealtà, e naturalmente cultura. Non si meravigli, perché erano tempi in cui allo sportivo potevano servire anche gli studio Sentivamo subito il bisogno di avere una sede per riunirci d’inverno e fissare i nostri programmi. Le riunioni cominciavano e non finivano. Si stava insieme nelle ore libere ed alla domenica mattina si partiva per Genova o Milano dove generalmente si giocavano le partite».

Forse, fu quella la mia più bella intervista da quando mi occupo di Juventus. Se mi innamorai della storia, lo debbo anche a quel vecchio rancoroso. Ancora il suo bastone mi ammonisce e la sua aspra voce risuona nella mia fantasia. Assieme a lui conobbi il primo eroico centrattacco della Juventus, Luigi Forlano, del quale Domenico Donna, ala sinistra della stessa squadra campione d’Italia 1905 (ma Hess ricorderà orgogliosamente che, capitano della seconda squadra bianconera, Campione d’Italia riserve, batterà la prima squadra): «Simpatico al pubblico, l’uomo più lunatico del mondo, che ora fa mirabilie, ora si accontenta di lavorare con la lingua, lanciando rimproveri ai compagni, al tempo, a se stesso. Fortunatamente il pubblico non riesce a sentire il rosario, e s’accontenta di ammirare in lui lo slancio, l’abilità pallone che lo rendono scocciante alla difesa avversaria. Simpatico perche non tralascia di lanciare il suo motto arguto, fidente, sul campo, della vittoria».

Certe considerazioni o riflessioni del resocontista ci trovano spiazzati. Ma il ritratto è sbozzato. Forlano è caratterialmente centravanti nato. Indossa con orgoglio la maglia bianconera dei colori giunti da Nottingham e gioca con furore per infilare il “ball” nella porta del “goalkeeper” avversario. Forlano, come Moschino, è uomo del popolo. Morì sul Carso, coi gradi e la piuma nera di ufficiale dei bersaglieri.